venerdì 20 gennaio 2012

Festeggiare le feste

I mirabolanti giorni di festa si sono “ahimè” conclusi. Prima che la mia faccia riprenda la sua forma normale, dopo che è stata obbligata a mantenere un sorriso di gomma per le ultime tre settimane, ci vorrà un po’ di tempo. Come il materasso memory che si ricorda la tua forma e se lo schiacci con la mano prima che ritorni normale ci va un po’.
Comunque meno male, dai, l’obbligo di festeggiare le feste è stato adempito anche per quest’anno. E finalmente posso tornare a fare il cazzo che voglio senza dover rendere conto a nessuno della noia che mi mettono i brindisi, le decorazioni, le luci di Natale, gli auguri, le musiche natalizie, i botti di Capodanno, ecc ecc ecc.
Posso riporre il mio sorriso di circostanza insieme alle mutande rosse in fondo al cassetto della disperazione che non verrà riaperto fino all’anno prossimo. Cioè oddio, il sorriso di circostanza è meglio conservarlo tra le mutande di tutti i giorni da mettere in negozio, perché non vorrei mai dimenticarlo a casa durante un giorno di apertura, se no che figura ci farei con i clienti…
Devo dire che le feste per me sono un po’ dolciamare come la canzone di Barbara D’Urso.
Più precisamente: Natale e Santo Stefano = amarezza. 27, 28, 29, 30 = insipidità con retrogusto amarognolo misto ad ansia da prestazione per la notte di Capodanno, nonché ansia dovuta all’organizzazione della serata stessa. 31 = picco di amarezza. 1 = picco di amarezza a cui si somma la nausea e il post sbronza personale e di chi ti sta vicino. Dal 2 = dolcezza mista a fancazzismo, nichilismo, misantropia, autolesionismo e depressione post traumatica.
Qualche anno fa il problema più grande per me risiedeva nei rapporti con i parenti, che pur non esistendo od essendo di un’aridità sconvolgente, rispuntavano magicamente sotto Natale, come il muschio secco del presepe, dietro l’albero di Natale con le palle che cadono. Tanto per dare un’immagine figurata della freschezza e genuinità di tali rapporti.
Devo dire però che con il tempo i parenti si sono estremamente diradati. Un po’ di loro sono morti. Un po’ si sono stufati del mio cinismo. Un po’ hanno trovato sconveniente fare gli auguri di Natale all’unica satanista dichiarata della famiglia (in realtà lo divento il 24 dicembre di ogni anno e cesso di esserlo il 7 gennaio). Insomma il satanismo delle feste, la mia scarsa loquacità telefonica, la difficoltà a rispettare le tradizioni e il ciclo della vita hanno scremato attentamente una rosa di parenti che in realtà non è mai stata nemmeno troppo rigogliosa. E così a Natale è stato tutto molto semplice. Genitori e poco più. 
In negozio la cosa si è complicata un po’. Ma devo dire che lo spirito necrofilo alessandrino porta più gioia il 2 novembre rispetto al 25 dicembre. Sempre meglio festeggiare molti morti piuttosto che una nascita, anche solo per una questione quantitativa. E quindi ci siamo fatti un po’ di auguri, ho ricevuto qualche panettone Motta, qualche spumante Rocca dei forti, e un portaqualcosa a forma di cuore in ceramica finissima con tutti i fiori orribili sopra.
Quando poi mi sono stufata di dire a tutti auguri intorno al 22 dicembre (chissà perché si deve cominciare con tanto anticipo, mica è una di quelle cose con cui è meglio portarsi avanti!) ho messo un bel cartello con scritto auguri a tutti e mi bastava fare un cenno con il capo per ricambiare. Cercare di limitare i dialoghi è un’arte che si impara negli anni e ormai io ne sono maestra.
Quindi è per questi motivi che la giornata peggiore del festeggiamento delle feste risulta essere il Capodanno. Anzitutto a Capodanno si deve per forza fare qualcosa. E questo per me è un problema. Metti che ho mal di testa. Metti che ho l’influenza. Metti che sono di pessimo umore. Metti che voglio stare per i cazzi miei. Metti che non ho voglia di bere. Metti che non ho fame. Metti che non ho voglia di ridere. No, non posso. Devo per forza festeggiare la festa. E questo mi fa venire mal di testa, anche un po’ di influenza, mi mette di pessimo umore, mi spinge a voler stare da sola, mi toglie fame, sete e voglia di ridere. E quindi ogni Capodanno per me è così. Da sempre.
Purtroppo io me ne starei a casa da sola al buio a piangere, ma non posso perché sono sposata con Mister Re della festa. E siccome abbiamo sviluppato negli anni un rapporto simbiotico e morboso che ci impedisce di separarci anche solo per una sera, e siccome a Capodanno, nella solita sfida dialettica tra chi vuole uscire e fare cose e chi vuole morire, tende a vincere lui, ecco che da anni a Capodanno ci si vede con gli amici. Non che si faccia chissà cosa. Ma è proprio l’idea di dover essere felice che mi rattrista. Non posso farci niente, è più forte di me. E’ anche l’unico giorno dell’anno in cui se mi ubriaco divento triste. Anzi, peggio: è l’unico giorno dell’anno in cui incredibilmente reggo l’alcol, per cui mi dico “quest’anno alle 16 devo essere già sbronza” così magari da collassare in bagno prima di mezzanotte, e invece mi ritrovo l’unica perfettamente lucida alle 5 del mattino. Spossata dal sonno e soprattutto dalla noia di vedere cose che fanno molto ridere se sei ubriaco e molta tristezza se sei lucido. Anche perché so benissimo che mentre tutti si dimenticheranno quei momenti e saranno salvati dalla dolcezza dell’oblio,  io sarò destinata a ricordare duramente tutto. E diverrò memoria storica del gruppo. Sarò quella che, quando si riguarderanno le foto, avrà l’onere di raccontare la situazione e le motivazioni che hanno spinto suo marito ad indossare un portarotoli di carta igienica come copricapo. Sarò io a dover raccontare a tutti delle foto in pose mistiche. Quelle in pose sataniche. Quelle in pose finto sexy. Tutte cose che davvero non sono divertenti. Se non sei ubriaco.
Dal 2 poi, quando finalmente sono lasciata libera di essere triste e sola, rieccomi felice e piena di vita. Ed ecco infatti gli aspetti meravigliosi di queste improvvisamente dolcissime vacanze:
1) Video di Mariah Carey zoccolissima con Justin Bieber minorennissimo che sembra suo nipote frocio molestato dalla zia vecchia, il quale subirà un trauma irreversibile associato all’abito di babbo Natale, che insieme cantano un’orribile canzone natalizia che la zia vecchia cantava quando era giovane. Il tutto in uno sfavillante ed irreale centro commerciale delle fiabe in cui nevica (ma solo dove c’è Mariah), con tanto di alberi di natale con tantissime palle, pacchetti natalizi, pupazzo di neve finta, slitta, abito da babba natale troia indossato dalla zia vecchia, marchette continue alle multinazionali ed invito allo shopping compulsivo svolto in primis da Justin e dai suoi amichetti multicolor. E il povero Justin che già ha a che fare quotidianamente con le flotte di ormoni agguerriti delle adolescenti, in questa situazione si trova un po’ a disagio di fronte alla flotta di ormoni della Mariah che fa di tutto per essere seducente, ma che invece fa tantissima tristezza, tipo Baby Jane. Però lui alla fine le dice lo stesso che All I want for Christmas is you, anche se ha il carrello pieno di cose che non sono you. Chissà se Justin si è reso conto che quel puttanone di quarta categoria altro non è che lo specchio di quello che sarà anche lui quando gli ormoni delle adolescenti non solo lo ignoreranno, ma lo troveranno repellente. E allora cercherà pubblico tra le cougar quarantenni, si metterà un vestito da babbo natale sexy, cercherà di mostrare che ha ancora qualche cartuccia da sparare, come si suol dire, e metterà nel video una ragazzina minorenne, che allora sarà famosissima, e a cui lui ammiccherà tantissimo, sperando di essere ancora avvenente, ma suscitando solo l’indignazione della ragazza, del pubblico e anche delle forze dell’ordine che lo arresteranno per pedofilia. Più o meno. L’alternativa è che succeda tutto uguale, ma in versione gay.
2) L’irruzione nella mia vita di Tacchi Alti, ovvero la mia nuova migliore amica virtuale, che purtroppo conosco solo grazie ai suoi video di Youtube. Di lei non voglio dire niente, perché non serve. Lancio solo un appello: Tacchi alti ti prego continua a mettere i video su Youtube e ad essere te stessa perché sei un mito e io ti voglio bene. Non dare retta ai troll della rete. Nel mio cuore sei insieme a Laura Scimone uno dei miei angeli custodi che portano gioia e luce alla mia esistenza. Grazie. Anche Gemma ti voglio bene, ma meno, perché hai esagerato con quella cosa del suicidio.
3) Il calendario di Cronaca Vera
4) Gears of war 2. Sì, lo so che c’è già il 3 e che è vecchio, ma a noi frega un cazzo. Io e mio marito, armati fino ai denti, abbiamo fatto un culo così a migliaia di locuste, rimanendo chiusi in casa e appiccicati al divano per tipo 4 giorni consecutivamente, senza far altro che giocare. Facendoci venire le convulsioni e gli attacchi epilettici, alienandoci dalla realtà, perdendo completamente il senso del tempo e dello spazio, alimentando la nostra sete di sangue, violenza, guerra, armi e rivalsa sul prossimo, soprattutto se diverso da te. Questa per noi è una tradizione natalizia al pari del cotechino e delle lenticchie, che si ripete negli anni, ma di cui non ci stanchiamo mai.
5) Il molto cibo molto buono e le persone dell’amore delle persone dell’amore della mia vita e il mio cane dell’amore dell’amore del cane. Ma questo sempre. Quindi ok.

giovedì 12 gennaio 2012

Fenomenologia di un uomo politico

La seguente storia è ispirata a fatti realmente accaduti. Nomi, luoghi e dettagli sono stati modificati per i soliti motivi di privacy.


Sandro Scopelli portava il suo nome con una certa fierezza. Aveva 15 anni, i capelli lunghi, i vestiti neri, la passione per il black metal e delle iniziali fantastiche da incidere sul suo banco di scuola. SS.  Che soddisfazione avere 15 anni e fare la scuola professionale, sputando in faccia alla società conformista che ti vede già operaio o muratore per il resto della vita. Che bello poter ascoltare i gruppi che fanno UAHAHAHAHAH fortissimo con le chitarre e le facce tutte truccate e dirsi che è per quello che non piaci alla gente.
Già Sandro non piaceva alla gente. Perché era brutto. Perché era grasso. Perché era permaloso. Perché non brillava di simpatia e nemmeno di intelligenza.
E se nasci così o vivrai per sempre da perdente oppure ti dai un tono. Sandro decise di darsi un tono e così passò, nel giro di una settimana, dall’ascolto di Masini a quello dei Dimmu Borgir. Passò dalla camicia di flanella a quadri con le macchie di unto del panino, al chiodo con catenazze nell’arco di un paio di gite di shopping con la mamma all’Outlet. E passò dal disegnare con i gessetti sul muretto dell’oratorio un innocentissimo cazzo stilizzato, all’intagliare le svastiche sul suo banco di scuola. E le SS. Già. Decise infatti di sposare quella frangia di metallo estremo che ti vuole anche un po’ nazista. Sì, così almeno poteva dare più fastidio ancora alle ragazzine che ridevano di lui alle sue spalle.
Insomma Sandro Scopelli portava il suo nome con una certa fierezza perché quando l’insegnante lo rimproverava “Scopelli la smetta di rovinare il banco! E poi cosa sono quelle!!! SS!!!! Questa è apologia di nazismo!!” lui poteva glissare facilmente, cosa di cui sarebbe diventato maestro negli anni a venire, inventando una scusa che lo sollevasse dalle sue responsabilità: “Ma no, sono solo le mie iniziali!!”
E questo era Sandro a 15 anni. Non amava nulla di quello che apparentemente era la sua passione, ma sapeva bene come fingere di essere ciò che non era per potersi più facilmente difendere dal mondo.
Sandro era un coniglio. Da quando lo avevano pestato forte alle scuole elementari e aveva scoperto che il termine “costituzione robusta” che usava sua mamma, lei non lo intendeva come il resto del mondo. Era grasso, ma non era forte. Era flaccido. Non riusciva a muoversi e a scappare. E non sopportava il dolore per niente bene. E così quando lo avevano pestato lui le aveva prese, e senza nemmeno troppa dignità.
A casa aveva pianto, umiliato e inferocito con il mondo, e giurò che si sarebbe vendicato. Ma più avanti. Quando avrebbe potuto farlo senza sporcarsi le mani di sangue e i calzoni di fango. E aveva capito che doveva solo trovare il modo di andare avanti senza prenderne troppe.
Arrivato all’adolescenza, bè, era giunto alla conclusione che, emarginato per emarginato, era meglio crearsi un’immagine forte e che poteva incutere soggezione.
Sandro diventò così metallaro e nazista nell’arco di una settimana.
Poi però a 17 anni capì un’altra cosa. Che così dava troppo nell’occhio. Che dava troppo fastidio. Che era nel mirino di tutta la gioventù della sua città, da sempre una città rossa, rossa come la vergogna e il comunismo. E soprattutto era nel mirino di suo padre. Quel figlio sempre vestito di nero puzzava di fascio al punto che cenare era diventato intollerabile. Per lui, da sempre uomo politicamente impegnato, da sempre dalla parte dei più forti, da sempre comunista, quel figliaccio nero dava proprio fastidio.
Sandro invece non voleva dar fastidio a nessuno. All’inizio l’emarginazione aveva provocato in lui un senso di riscatto che percorreva le vie della provocazione, ma quelle vie si erano presto rivelate uno sciocco labirinto di solitudine che lo tagliava ancora più fuori dalla società. E lui invece non voleva essere tagliato fuori. Voleva disperatamente farne parte. Essere accettato. Anche se non per quello che era. Anche perché di tanti quesiti che Sandro si era posto, l’unico che non lo aveva mai preoccupato era proprio quello: chi era lui? Ma effettivamente a lui non fregava un cazzo chi era. A lui fregava di sopravvivere. Anzi, adesso che aveva ottenuto la sopravvivenza, mirava a qualcosa di più. L’integrazione.
E così nell’arco di una settimana Sandro decise che i suoi lunghi capelli sarebbero facilmente potuti diventare dei dread. Andò all’outlet e questa volta con suo papà, che fu fierissimo di regalargli una maglietta del Che con cui sostituire quello scempio di felpa dei Marduk in cui le demonesse fanno un pompino a Gesù.
Com’era fiero di suo figlio quel giorno. Quando si tolse quella felpa e improvvisamente con quella bella maglietta rossa nessuno si voltava più a guardarli. Nessuno li additava più nel parcheggio dove avevano lasciato l’auto prima dello shopping e dove, quando erano arrivati, suo figlio era stato fischiato da un gruppetto di giovinastri alternativelli che se ne stavano spaparanzati su una panchina dell’outlet con a fianco i sacchettini marchiati Adidas che contenevano le loro comunistissime Gazzelle da 150 euro.
Sandro uscì dall’outlet senza essere notato. Maglia del Che. Panatloni extralarge. Un sacchettino dell’Adidas e uno della Converse.
Il giorno dopo buttò i cd degli Impaled Nazarene e comprò i Subsonica. Era ancora più semplice far finta che gli piacessero. Nel frattempo aveva imparato a suonare il basso. Oddio, imparato. Sapeva fare Come as you are e Smoke on the water. Ma era sufficiente per entrare in una band ed andare a suonare nei centri sociali e al festival dell’unità.
E fu proprio al festival dell’unità che Sandro ebbe un’ennesima folgorazione.
Mentre era sul palco e suonava, senza essere né additato né insultato né odiato da nessuno, capì che poteva avere di più. Capì che non voleva più essere solo ignorato, voleva essere considerato. Dalla sopravvivenza, passando attraverso una breve fase di ribellione e una più importante di anonimato, Sandro giunse così all’impegno politico.
All’inizio fu molto facile. Suo padre era da anni membro del partito e non aspettava altro che il suo unico figlio facesse il suo debutto in società. E così fu. Lo portò alla prima riunione. E lì Sandro rimase folgorato.
Improvvisamente divenne un compagno. Compagno di tutti. Compagno di un tutto che lo rendeva potente. Arrivò lì ed era già qualcuno, in quanto figlio di un membro storico del partito. Fu semplicissimo avere il rispetto di tutti.
La prima volta ascoltò. Capì subito cosa doveva fingere di essere per essere considerato. Era ancora più semplice che fingersi alternativo e fan dei Marlene Kuntz. Era ancora più banale. Buonismo spicciolo, dietrologia, demagogia, antirazzismo e pacifismo. Con un pizzico di anticapitalismo, ma poco poco, da non  dare troppo fastidio. Diciamo anticapitalismo con le Converse, ecco.
La seconda volta intervenne. Dopo una settimana propose di aiutare a servire ai tavoli della festa dell’unità. I suoi vecchi compagni di band avevano ormai un altro bassista e mentre lui serviva e loro suonavano capiva che non è lo stare su un palco che ti porterà da qualche parte. Bisogna invece imparare a servire. E mentre serviva Sandro ebbe un’altra illuminazione. Poteva avere ancora di più che il rispetto e la considerazione. Già. Poteva avere il potere. Anzi, voleva avere il potere. Doveva avere il potere.
Alla riunione successiva chiese la parola e parlò un po’ di più. Continuò a servire ai tavoli. Continuò a dire sempre una parola in più, riunione dopo riunione. Servire e strisciare. Quello gli veniva benissimo. Lo aveva imparato alle elementari quella volta che lo avevano picchiato. Lui aveva detto, strisciando nel fango “farò quello che vorrete, ma lasciatemi”. Anche ora nel suo cuore diceva, strisciando nel fango, farò quello che volete, ma datemi del potere.
E così parola dopo parola, vassoio dopo vassoio Sandro ebbe una proposta. C’erano state le elezioni, e come succedeva da 25 anni, avevano vinto. Gli chiesero se voleva una poltrona come assessore. Accettò immediatamente, senza nemmeno sapere di che cosa si sarebbe trattato. Tanto lui non aveva studiato niente, si era fermato prima ancora di diplomarsi. Aveva capito che lo studio non portava risultati di nessun tipo. Se non l’emarginazione. Lui faceva parte di un gruppo invece. Non aveva tempo di starsene da solo sui libri. E anche la musica non serviva più. Certo, cantava De Gregori, Guccini e Bella ciao nei cori ubriachi delle feste di partito. E andava bene perché erano ancora più semplici dei testi dei Subsonica e dei Marlene.
Comunque, neanche il tempo di chiedersi se era preparato per fare l’assessore e Sandro ebbe la sua poltrona. Ormai aveva 30 anni e gavetta ne aveva fatta. Certo, senza maturare nessuna competenza o qualifica reale, ma agendo come sapeva fare lui. Fingendo. Sottomettendosi ai pensieri altrui. Ogni giorno una parola strisciante in più. Ogni estate a portar piatti a destra e sinistra, con il caldo degli agnolotti fumanti che gli si condensava sulla fronte. E con la fame che lo divorava fino a mezzanotte, quando poteva finalmente sedersi, mangiare tantissimo e cantare bella ciao.
Alla fine fu molto semplice per lui. Sapeva assecondare i più forti e fu quello che fece. Sapeva chinare la testa e fu quello che fece. Sapeva fingere di essere qualcosa che non era e fu quello che fece. E a 30 anni Sandro, che aveva ormai tagliato i dread da qualche anno, decise che era arrivato il momento di togliersi la maglietta del Che e indossare una camicia.
Il primo giorno in Comune Sandro arrivò a piedi con la camicia bianca a i pantaloni eleganti. Dopo una settimana aveva la  cravatta e la riga da una parte. Dopo un mese arrivava con un comunistissimo suv nero, che per non risultare troppo fascista aveva un adesivo della bandiera della pace e una svastica con il divieto nel vetro posteriore.
Sandro divenne Assessore alla pubblica istruzione. La sera andava dal suo amico che un tempo era pescivendolo e adesso, dopo la sua stessa gavetta, aveva avuto l’Assessorato alle politiche sociali e insieme guardavano la partita in tv.
Diventato assessore aveva anche trovato una ragazza, probabilmente frigida, ma sicuramente gnocca, da mostrare ai compagni e di cui vantarsi (ma anche da tradire con la prima mignotta disposta a fargli almeno un pompino per dieci euro).
E proprio durante uno di questi pompini, mentre si sentiva come quel Cristo che portava sulla maglietta e mentre immaginava che il trans cinquantenne che lo lavorava fosse una di quelle demonesse che avevano tanto indignato suo padre, pensò che probabilmente era arrivato dove voleva. Aveva il potere e ora poteva vendicarsi dei torti subiti. Sbattendo a tutti in faccia il suo successo. E rendendo un po’ più difficile la vita a tutte quelle persone che lo avevano deriso da bambino e da ragazzo.
Decise per esempio di tagliare i fondi a quell’Istituto professionale che frequentava e di sottoporlo a qualche controllo edilizio in più fatto da un suo amico, anzi compagno, che avrebbe trovato la struttura non adeguata.
E arrivato, insieme a suo papà, al sindaco e al compagno muratore, a fare il sopralluogo nella sua vecchia scuola e a comunicare che l’Istituto avrebbe chiuso i battenti a breve, entrò dentro sentendosi come un dio, che aveva in mano le sorti di tutto il personale che lavorava lì, di tutti gli studenti, della struttura stessa. La casualità volle che l’incontro con il Preside fosse fissato proprio in quella che era la sua vecchia classe. Entrò e vide che c’era ancora il suo banco. Si avvicinò alla cattedra per presentarsi e riconobbe il suo vecchio professore, che immediatamente lo acclamò: “Sandro! Ma sei proprio tu? Bentornato! Fatti stringere la mano! Hai già fatto vedere il tuo vecchio banco al sindaco e ai tuoi colleghi? Guardate qui! Si riconosce perché sono rimaste le sue iniziali: SS!”. E mentre il padre impallidiva ricordando benissimo cosa era suo figlio e la fatica che aveva fatto per nasconderlo e cambiarlo, e mentre i compagni si guardavano con aria interrogativa sulla strana forma runica che possedevano quelle S, Sandro sfoderò il suo miglior sorriso e, rosso di vergogna e comunismo, cominciò il discorso che avrebbe chiuso l’Istituto, licenziato il professore e iniziato la sua lentissima e strisciante vendetta sulla società.