La seguente storia è ispirata a fatti realmente accaduti. Nomi, luoghi e dettagli sono stati modificati per i soliti motivi di privacy.
Sandro Scopelli portava il suo nome con una certa fierezza. Aveva 15 anni, i capelli lunghi, i vestiti neri, la passione per il black metal e delle iniziali fantastiche da incidere sul suo banco di scuola. SS. Che soddisfazione avere 15 anni e fare la scuola professionale, sputando in faccia alla società conformista che ti vede già operaio o muratore per il resto della vita. Che bello poter ascoltare i gruppi che fanno UAHAHAHAHAH fortissimo con le chitarre e le facce tutte truccate e dirsi che è per quello che non piaci alla gente.
Già Sandro non piaceva alla gente. Perché era brutto. Perché era grasso. Perché era permaloso. Perché non brillava di simpatia e nemmeno di intelligenza.
E se nasci così o vivrai per sempre da perdente oppure ti dai un tono. Sandro decise di darsi un tono e così passò, nel giro di una settimana, dall’ascolto di Masini a quello dei Dimmu Borgir. Passò dalla camicia di flanella a quadri con le macchie di unto del panino, al chiodo con catenazze nell’arco di un paio di gite di shopping con la mamma all’Outlet. E passò dal disegnare con i gessetti sul muretto dell’oratorio un innocentissimo cazzo stilizzato, all’intagliare le svastiche sul suo banco di scuola. E le SS. Già. Decise infatti di sposare quella frangia di metallo estremo che ti vuole anche un po’ nazista. Sì, così almeno poteva dare più fastidio ancora alle ragazzine che ridevano di lui alle sue spalle.
Insomma Sandro Scopelli portava il suo nome con una certa fierezza perché quando l’insegnante lo rimproverava “Scopelli la smetta di rovinare il banco! E poi cosa sono quelle!!! SS!!!! Questa è apologia di nazismo!!” lui poteva glissare facilmente, cosa di cui sarebbe diventato maestro negli anni a venire, inventando una scusa che lo sollevasse dalle sue responsabilità: “Ma no, sono solo le mie iniziali!!”
E questo era Sandro a 15 anni. Non amava nulla di quello che apparentemente era la sua passione, ma sapeva bene come fingere di essere ciò che non era per potersi più facilmente difendere dal mondo.
Sandro era un coniglio. Da quando lo avevano pestato forte alle scuole elementari e aveva scoperto che il termine “costituzione robusta” che usava sua mamma, lei non lo intendeva come il resto del mondo. Era grasso, ma non era forte. Era flaccido. Non riusciva a muoversi e a scappare. E non sopportava il dolore per niente bene. E così quando lo avevano pestato lui le aveva prese, e senza nemmeno troppa dignità.
A casa aveva pianto, umiliato e inferocito con il mondo, e giurò che si sarebbe vendicato. Ma più avanti. Quando avrebbe potuto farlo senza sporcarsi le mani di sangue e i calzoni di fango. E aveva capito che doveva solo trovare il modo di andare avanti senza prenderne troppe.
Arrivato all’adolescenza, bè, era giunto alla conclusione che, emarginato per emarginato, era meglio crearsi un’immagine forte e che poteva incutere soggezione.
Sandro diventò così metallaro e nazista nell’arco di una settimana.
Poi però a 17 anni capì un’altra cosa. Che così dava troppo nell’occhio. Che dava troppo fastidio. Che era nel mirino di tutta la gioventù della sua città, da sempre una città rossa, rossa come la vergogna e il comunismo. E soprattutto era nel mirino di suo padre. Quel figlio sempre vestito di nero puzzava di fascio al punto che cenare era diventato intollerabile. Per lui, da sempre uomo politicamente impegnato, da sempre dalla parte dei più forti, da sempre comunista, quel figliaccio nero dava proprio fastidio.
Sandro invece non voleva dar fastidio a nessuno. All’inizio l’emarginazione aveva provocato in lui un senso di riscatto che percorreva le vie della provocazione, ma quelle vie si erano presto rivelate uno sciocco labirinto di solitudine che lo tagliava ancora più fuori dalla società. E lui invece non voleva essere tagliato fuori. Voleva disperatamente farne parte. Essere accettato. Anche se non per quello che era. Anche perché di tanti quesiti che Sandro si era posto, l’unico che non lo aveva mai preoccupato era proprio quello: chi era lui? Ma effettivamente a lui non fregava un cazzo chi era. A lui fregava di sopravvivere. Anzi, adesso che aveva ottenuto la sopravvivenza, mirava a qualcosa di più. L’integrazione.
E così nell’arco di una settimana Sandro decise che i suoi lunghi capelli sarebbero facilmente potuti diventare dei dread. Andò all’outlet e questa volta con suo papà, che fu fierissimo di regalargli una maglietta del Che con cui sostituire quello scempio di felpa dei Marduk in cui le demonesse fanno un pompino a Gesù.
Com’era fiero di suo figlio quel giorno. Quando si tolse quella felpa e improvvisamente con quella bella maglietta rossa nessuno si voltava più a guardarli. Nessuno li additava più nel parcheggio dove avevano lasciato l’auto prima dello shopping e dove, quando erano arrivati, suo figlio era stato fischiato da un gruppetto di giovinastri alternativelli che se ne stavano spaparanzati su una panchina dell’outlet con a fianco i sacchettini marchiati Adidas che contenevano le loro comunistissime Gazzelle da 150 euro.
Sandro uscì dall’outlet senza essere notato. Maglia del Che. Panatloni extralarge. Un sacchettino dell’Adidas e uno della Converse.
Il giorno dopo buttò i cd degli Impaled Nazarene e comprò i Subsonica. Era ancora più semplice far finta che gli piacessero. Nel frattempo aveva imparato a suonare il basso. Oddio, imparato. Sapeva fare Come as you are e Smoke on the water. Ma era sufficiente per entrare in una band ed andare a suonare nei centri sociali e al festival dell’unità.
E fu proprio al festival dell’unità che Sandro ebbe un’ennesima folgorazione.
Mentre era sul palco e suonava, senza essere né additato né insultato né odiato da nessuno, capì che poteva avere di più. Capì che non voleva più essere solo ignorato, voleva essere considerato. Dalla sopravvivenza, passando attraverso una breve fase di ribellione e una più importante di anonimato, Sandro giunse così all’impegno politico.
All’inizio fu molto facile. Suo padre era da anni membro del partito e non aspettava altro che il suo unico figlio facesse il suo debutto in società. E così fu. Lo portò alla prima riunione. E lì Sandro rimase folgorato.
Improvvisamente divenne un compagno. Compagno di tutti. Compagno di un tutto che lo rendeva potente. Arrivò lì ed era già qualcuno, in quanto figlio di un membro storico del partito. Fu semplicissimo avere il rispetto di tutti.
La prima volta ascoltò. Capì subito cosa doveva fingere di essere per essere considerato. Era ancora più semplice che fingersi alternativo e fan dei Marlene Kuntz. Era ancora più banale. Buonismo spicciolo, dietrologia, demagogia, antirazzismo e pacifismo. Con un pizzico di anticapitalismo, ma poco poco, da non dare troppo fastidio. Diciamo anticapitalismo con le Converse, ecco.
La seconda volta intervenne. Dopo una settimana propose di aiutare a servire ai tavoli della festa dell’unità. I suoi vecchi compagni di band avevano ormai un altro bassista e mentre lui serviva e loro suonavano capiva che non è lo stare su un palco che ti porterà da qualche parte. Bisogna invece imparare a servire. E mentre serviva Sandro ebbe un’altra illuminazione. Poteva avere ancora di più che il rispetto e la considerazione. Già. Poteva avere il potere. Anzi, voleva avere il potere. Doveva avere il potere.
Alla riunione successiva chiese la parola e parlò un po’ di più. Continuò a servire ai tavoli. Continuò a dire sempre una parola in più, riunione dopo riunione. Servire e strisciare. Quello gli veniva benissimo. Lo aveva imparato alle elementari quella volta che lo avevano picchiato. Lui aveva detto, strisciando nel fango “farò quello che vorrete, ma lasciatemi”. Anche ora nel suo cuore diceva, strisciando nel fango, farò quello che volete, ma datemi del potere.
E così parola dopo parola, vassoio dopo vassoio Sandro ebbe una proposta. C’erano state le elezioni, e come succedeva da 25 anni, avevano vinto. Gli chiesero se voleva una poltrona come assessore. Accettò immediatamente, senza nemmeno sapere di che cosa si sarebbe trattato. Tanto lui non aveva studiato niente, si era fermato prima ancora di diplomarsi. Aveva capito che lo studio non portava risultati di nessun tipo. Se non l’emarginazione. Lui faceva parte di un gruppo invece. Non aveva tempo di starsene da solo sui libri. E anche la musica non serviva più. Certo, cantava De Gregori, Guccini e Bella ciao nei cori ubriachi delle feste di partito. E andava bene perché erano ancora più semplici dei testi dei Subsonica e dei Marlene.
Comunque, neanche il tempo di chiedersi se era preparato per fare l’assessore e Sandro ebbe la sua poltrona. Ormai aveva 30 anni e gavetta ne aveva fatta. Certo, senza maturare nessuna competenza o qualifica reale, ma agendo come sapeva fare lui. Fingendo. Sottomettendosi ai pensieri altrui. Ogni giorno una parola strisciante in più. Ogni estate a portar piatti a destra e sinistra, con il caldo degli agnolotti fumanti che gli si condensava sulla fronte. E con la fame che lo divorava fino a mezzanotte, quando poteva finalmente sedersi, mangiare tantissimo e cantare bella ciao.
Alla fine fu molto semplice per lui. Sapeva assecondare i più forti e fu quello che fece. Sapeva chinare la testa e fu quello che fece. Sapeva fingere di essere qualcosa che non era e fu quello che fece. E a 30 anni Sandro, che aveva ormai tagliato i dread da qualche anno, decise che era arrivato il momento di togliersi la maglietta del Che e indossare una camicia.
Il primo giorno in Comune Sandro arrivò a piedi con la camicia bianca a i pantaloni eleganti. Dopo una settimana aveva la cravatta e la riga da una parte. Dopo un mese arrivava con un comunistissimo suv nero, che per non risultare troppo fascista aveva un adesivo della bandiera della pace e una svastica con il divieto nel vetro posteriore.
Sandro divenne Assessore alla pubblica istruzione. La sera andava dal suo amico che un tempo era pescivendolo e adesso, dopo la sua stessa gavetta, aveva avuto l’Assessorato alle politiche sociali e insieme guardavano la partita in tv.
Diventato assessore aveva anche trovato una ragazza, probabilmente frigida, ma sicuramente gnocca, da mostrare ai compagni e di cui vantarsi (ma anche da tradire con la prima mignotta disposta a fargli almeno un pompino per dieci euro).
E proprio durante uno di questi pompini, mentre si sentiva come quel Cristo che portava sulla maglietta e mentre immaginava che il trans cinquantenne che lo lavorava fosse una di quelle demonesse che avevano tanto indignato suo padre, pensò che probabilmente era arrivato dove voleva. Aveva il potere e ora poteva vendicarsi dei torti subiti. Sbattendo a tutti in faccia il suo successo. E rendendo un po’ più difficile la vita a tutte quelle persone che lo avevano deriso da bambino e da ragazzo.
Decise per esempio di tagliare i fondi a quell’Istituto professionale che frequentava e di sottoporlo a qualche controllo edilizio in più fatto da un suo amico, anzi compagno, che avrebbe trovato la struttura non adeguata.
E arrivato, insieme a suo papà, al sindaco e al compagno muratore, a fare il sopralluogo nella sua vecchia scuola e a comunicare che l’Istituto avrebbe chiuso i battenti a breve, entrò dentro sentendosi come un dio, che aveva in mano le sorti di tutto il personale che lavorava lì, di tutti gli studenti, della struttura stessa. La casualità volle che l’incontro con il Preside fosse fissato proprio in quella che era la sua vecchia classe. Entrò e vide che c’era ancora il suo banco. Si avvicinò alla cattedra per presentarsi e riconobbe il suo vecchio professore, che immediatamente lo acclamò: “Sandro! Ma sei proprio tu? Bentornato! Fatti stringere la mano! Hai già fatto vedere il tuo vecchio banco al sindaco e ai tuoi colleghi? Guardate qui! Si riconosce perché sono rimaste le sue iniziali: SS!”. E mentre il padre impallidiva ricordando benissimo cosa era suo figlio e la fatica che aveva fatto per nasconderlo e cambiarlo, e mentre i compagni si guardavano con aria interrogativa sulla strana forma runica che possedevano quelle S, Sandro sfoderò il suo miglior sorriso e, rosso di vergogna e comunismo, cominciò il discorso che avrebbe chiuso l’Istituto, licenziato il professore e iniziato la sua lentissima e strisciante vendetta sulla società.