lunedì 24 dicembre 2012

Imperativi per scampare o, almeno, arrivare pronti al proprio suicidio



Tieni sempre a mente gli errori fatti, ripetili nella tua mente uno dietro l’altro, senza aspettarti di trovare conforto e comprensione in nessuno. 

Abituati al fallimento.

Concentrati sulle cose semplici, sul fare la spesa, sul portare il cane al parco, sul cucinare qualcosa.

Risolvi situazioni banali per sentirti ancora in grado di fare qualcosa.

Cerca di recuperare un’amicizia deteriorata dalle delusioni. 

Vinci la solitudine uscendo con le persone anche se non ti piacciono. 

Trova conforto in una chat con chi non hai mai nemmeno guardato negli occhi e che anche se stai piangendo non lo sa. 

Cerca di recuperare quello che fino a 5 anni fa ti rendeva felice e ti dava uno scopo. 

Impegnati affinché quello che hai sia abbastanza. 

Fai elenchi di cose per cercare di mantenere il controllo.

Mantieni il controllo.

Ragiona per punti e datti obiettivi ed imperativi.

Non perdere il ritmo.

Non perdere la concentrazione.

Mangia, bevi e dormi con regolarità.

Ricordati le medicine.

Non lasciare che nessuno comprenda a pieno le tue preoccupazioni e che nessuno sia davvero cosciente di quanto è profondo e buio il buco nel quale stai precipitando.

Allenati al pensiero di non esistere più.

Mostrati forte, sorridente, positivo.

Non mostrare il fianco, non fidarti di nessuno, cammina con spalle dritte e testa alta.

Ricerca le tue giustificazioni nel dare conforto agli altri, ma non aspettarti conforto da nessuno.

Tieni sempre a mente che stai precipitando, e quindi tienti pronto all’impatto.

Nel frattempo cerca appigli, cose semplici, che attutiscano la caduta, magari una cena con chi ami o un tè caldo con una amica.

Progetta qualcosa di nuovo e cerca di crederci ancora.

Non avere aspettative elevate.

Mantieni sempre addosso questa maschera, cosicché dietro di essa tu possa startene rintanato e al sicuro, dove nessuno può vederti.

E lì dietro, lascia che succeda di tutto…tagliati, guarda scorrere il sangue, insultati, suicidati, fai delle stragi.

Allenati ancora al pensiero di non esistere più.

E fino a che avrai questa maschera sorridente sulla faccia e una buca di cento metri sotto i piedi, vuol dire che sei ancora vivo. Inizia a preoccuparti quando la maschera cadrà, perché probabilmente significa hai toccato il fondo della buca.

A questo punto, cerca un’arma.

Assicurati che sia efficiente, funzionante e completa.

Davanti alla specchio.

Guardati negli occhi.

Senza rimpianti e senza rimorsi.

giovedì 19 aprile 2012

La più che sostenibile leggerezza dell'essere un peso per gli altri


La primavera è arrivata volando sulle ali dell’Alprazolam. E’ planata un giorno in giardino e mi ha colto nella solita disperazione esistenziale di chi vive nella condanna dell’insoddisfazione data da aspettative esageratamente elevate rispetto alle proprie possibilità.
La primavera ha deciso per me che è arrivato il tempo delle pulizie. Ovviamente non parlo di pulizie domestiche, che dio me ne scampi. Parlo di eliminare il superfluo.
Le prime cose totalmente inutili di cui intendo sbarazzarmi sono la mia ostinazione e il mio rigore. Basta! Voglio vivere da debosciata. Smettere di lavorare. Farmi mantenere da qualcuno. Lamentarmi tantissimo di tutto. Lamentarmi su Facebook della mia esistenza inutile e vuota. Ubriacarmi e pubblicare le foto mentre vomito e prendere 289 mi piace da tutti quei coglioni che, mentre ero ripiegata sul cesso il martedì sera, stavano andando a riposare con già l’ansia della giornata lavorativa successiva.
Lamentarmi che non ho i soldi e farmi pagare le cose da tutti. Soprattutto da quelli che, non avendo di meglio da fare, quei soldi se li sono pure guadagnati.
“Eeeeeh, beati voi che lavorate. Io stasera non posso nemmeno permettermi una birretta…. (ndr: ovviamente si deve usare proprio il termine birretta, perché il fatto di farla apparire come una cosa piccola e carina utilizzando un vezzeggiativo, porta l’interlocutore a farsi maggiormente ingannare e a cadere nella trappola che gli sto sagacemente tendendo…se chiedessi una birrona lo spaventerei, chissà quanto costa una birrona…sempre uguale, tanto mi prendo comunque una media delle più care, perché a me, adesso che sono mantenuta, povera ma esistenzialista, piace solo la birra artigianale irlandese fermentata nelle botti medievali di sta minchia e imbottigliata nel vetro di murano di sto cazzo)… Certo, esco tutte le sere, anche quando voi state a casa perché l’indomani vi tocca sbattervi, ed efettivamente sì, sono sempre in giro per locali, mentre voi risparmiate facendo la spesa alla LIDL, ma, non si capisce come mai, sono povera. Stasera mi sa che non ho nemmeno i soldi per una BIRRETTA…. Ma no dai, non posso accettare…. Vabbè però se insisti…. Ti ringrazio. Poi appena troverò lavoro mi sdebiterò” (eheh, certo, visto che la mia prospettiva è di non lavorare mai più).
Voglio chiedere i sussidi al Comune per qualcosa. Non so, perché sono povera, perché sono triste, perché non sono integrata, perché sono depressa. Insomma per qualcosa. Voglio essere un peso sociale. Sì. Una 28enne che potrebbe lavorare, ma che siccome c’ha l’animo ipersensibile da artista maledetta non ce la fa a piegarsi e allora si fa mantenere dalle tasse di tutte quelle persone grigie e incasellate, che disprezza.
Bè certo. Voglio essere un peso sociale e lamentarmi tantissimo di tutto. Del fatto che non lavoro. Del fatto che non ho una casa mia. Voglio essere libera di stare malissimo.
E poi sbarazzarmi della forza di volontà. Basta essere volenterosa. D’ora in avanti non vorrò più niente. Non voglio più impegnarmi in niente. Lasciarmi andare. Non reagire più. Diventare debole. Di quelle persone di cui dicono No dai poverina, non facciamole del male perché è fragile. Esatto. Voglio essere fragile. Essere accudita. Trattata con più cura delle altre persone perché magari potrei reagire male. No, non diamole questa notizia che magari poverina ci resta male e fa una stupidata. Ecco sì. Fare le stupidate.
Tipo, non so, infilarmi nella vasca da bagno, tagliarmi le vene (ma appena appena però, perchè ovviamente ora sono più attaccata alla vita che mai, dato che sono debosciata e faccio il cazzo che voglio, anche se  dico che voglio morire sempre) telefonare ad un’amica per dirle Aiuto, mi sono tagliata le vene perché la mia vita fa schifo. Aiutami tu, ti prego. E gettarla nel panico. Farla viaggiare in macchina col cuore in gola, in piena notte anche se l’indomani lavora. Farla arrivare. Piangere sulla sua spalla. Farmi fare la camomilla. Ringraziarla. Scusarmi fingendomi umiliata di averla disturbata in piena notte. E andare a dormire. Senza pensieri. E mentre la mia amica ancora preoccupata si sveglia il mattino dopo alle 6.30 con le occhiaie e le lacrime seccate, perché ha pianto per me, e i vestiti che non si è stata a togliere tanto dopo poche ore andava a lavorare, svegliarmi bella riposata verso mezzogiorno e mezza, postare le foto su Facebook con le garze sui polsi e prendere751 mi piace e scrivere un bello stato ironico, ma con retrogusto “finto” amaro, su quanto sono profondamente depressa a causa della mia intelligenza sopra la media che mi porta ad essere esclusa dalla società. E ad odiare tutti. Soprattutto chi è ordinario e lavora. Come la mia amica.
Oh ecco. E poi voglio sbarazzarmi della mia dignità. E basta con sta storia che devi camminare a testa alta, che devi essere fiera davanti allo specchio ecc. Ma checazzomenefrega. Basta. Troppo faticoso. Camminare troppo dritti è un inutile sforzo. Meglio piegarsi un pochetto. Adottare quell’andatura un po’ svogliata del non c’ho voglia di fare un cazzo, non mi rompete i coglioni. Ecco, l’andatura comunista da centro sociale. E poi andare in piazza a dire Voi politici ci togliete la dignità. Sì, ecco, mi farò i piercing alle gengive e andrò ai colloqui di lavoro vestita da puttana con le svastiche tatuate sulle zinne, puzzando di alcol a buon mercato, per poi uscire disoccupata e incazzarmi con il sistema che non mi accetta per quello che sono, così sopra la media. Che non accetta i miei piercing alle gengive. Bastardi fascisti. O comunisti. O bo.
E poi sbarazzarmi del senso di responsabilità. E dell’affidabilità. D’ora in poi sarò un ramoscello al vento. Non contate su di me, non so se ci sarò. Ah per voi è importante, ma a me non me ne frega, perché ho perso il rispetto per gli altri. Già. Ora penso a me.  Non so a che ora arrivo. Non so quando e se torno. Non so dove dormirò. Non mi interessa perché sono poeta maledetta ed esistenzialista. Ora vado a bermi l’assenzio comprato dalla mamma all’esselunga, in riva ad un fiume da sola con l’Ipod. E vi metto la foto su Facebook.  Mamma mia quanto sono figa.
La primavera volando sulle ali dell’Alprazolam mi ha portato venti di saggezza e insieme al cielo ha schiarito i miei pensieri. Sulla mia vita. Su chi mi circonda. Spero che volando dai miei coetanei abbia portato a qualcuno l’intenzione di cominciare a sbattersi, visto che io ho finito di farlo e qualcuno dovrà pur mantenermi adesso.
Benvenuta primavera, ci si sente così leggeri quando si decide di buttare tutto il peso delle responsabilità sugli altri. E io ora sono leggera leggera. Ma essendo che ancora i miei pesi me li carico da sola, evidentemente è tutto merito dell’Alprazolam.

mercoledì 29 febbraio 2012

Il bene dei poveretti


Le persone che mi capita di incontrare quotidianamente costituiscono il tessuto di una città profondamente e sordidamente malvagia.
La mediocrità che sono costretta a subire infetta la mia vita e la mia giornata, costellandola di episodi e chiacchiere inutili, volte sempre ad una malvagità mediocre ma feroce, fatta di pettegolezzi, invidie, ripicche, falsità e malumori. Una malvagità che non si estrinseca in gesti esemplari, da poter identificare e additare facilmente. Un tipo di male particolare, che si insinua nella profondità della gente comune portandola ad essere più contenta per una disgrazia altrui che per un lieto evento. Un po’ il male radicale di Kant, via. Un male basso. Senza fantasia. Senza coraggio. Misantropo, ma trattenuto nei ranghi del perbenismo e della rispettabilità. Della facciata da brave persone, in cui seno serpeggia però il male. Il male qualunque. Il male quotidiano. Il male represso. Il male nascosto. Il male banale. Il male dei poveretti.
E vivere a contatto con il male dei poveretti è alquanto faticoso. Il senso di nausea talvolta mi attanaglia e torce le budella. Mi fa erigere muri di incomunicabilità, che mi salvaguardano dalle bassezze umane. E che mi isolano da questo posto. Sono immune all’invidia. Alla chiacchiera. Al pettegolezzo. A quel senso malato e angosciante di sadica superiorità di fronte al dolore altrui. Mi proteggo in ogni modo dal serpeggiare del male dei poveretti, mi guardo costantemente le spalle, cerco di non dare confidenza. Mi mantengo sempre superiore. E non è facile in una città in cui anche i muri puzzano di malignità. In cui tutti i cittadini sono dei poveretti. E dei malvagi.
Però di fronte a questa minaccia ho imparato ad erigere delle barriere e delle protezioni. E per quanto il male dei poveretti sia nauseante, mai mi sarei aspettata l’irruzione nella mia vita di qualcosa che avrebbe potuto farmi ricredere sul mio giudizio che catalogava il male dei poveretti come la peggior piaga che affligge l’intelletto, lo spirito e l’intera umanità.
E invece, inaspettatamente, ben peggio del male dei poveretti, un bel giorno mi sono trovata di fronte al bene dei poveretti.
Anzitutto il bene dei poveretti, al contrario del male, non è equamente e mediamente distribuito all’interno di migliaia di individui che popolano questa città. No. E’ tutto completamente concentrato in un unico individuo, che ne contiene quindi una dose concentratissima ed insopportabile. Ed essendo l’unico portatore di tale viscido principio, egli si identifica totalmente con esso, non avendo alcuna individualità altra. Il bene dei poveretti e questo individuo sono la stessa cosa. Mai avevo percepito tale principio scisso da tale individuo e mai potrò percepire tale individuo scisso dal suo principio.
Il bene dei poveretti mi si è presentato togliendosi il cappello di pezza sgualcita blu del nonno di Pollyanna, che indossa sempre, e facendo un piccolo inchino. Talvolta arriva quasi a genuflettersi.
Le prime parole che pronuncia sono sempre buongiorno (e fin qui ok) e scusa e grazie. Anzi scusi e la ringrazio, se non addirittura scusate e vi ringrazio. Le pronuncia di fila, così, a cazzo, senza ragione. Appena entra: Buongiorno scusi la ringrazio. E poi per tutto il tempo rimane lì, a capo chino, strizzando tra le mani il cappello.
La sua bontà è talmente elevata che dà un senso di nausea profondo ed indicibile. Ti fa tremare le ginocchia. Non c’è falsità nei suoi modi così esasperatamente gentili. Sono sinceri. Sempre. Il timore reverenziale e il rispetto esagerato che nutre verso qualunque individuo è assolutamente autentico e profondo. Il suo bene non si estrinseca in atti buoni di particolare valore o rarità, non va in Africa a curare i bambini o cose simili. Lui vive nel suo essere semplice e poveretto una bontà che non è magnifica e accecante, ma nemmeno volta alla gloria personale e al riconoscimento altrui. Lui ha una bontà banale, scontata, vuota, semplice, povera. Esattamente come è lui. Anche se si cerca di gettare il seme del male e dell’odio nel suo animo, non si hanno risultati, ma solo stupefacenti riscontri dell’invincibilità di tale principio contro qualunque tentativo di corruzione.
Ho cercato diverse volte di rivolgermi a lui dandogli del tu, per esempio, ma senza mai scalfire la sua sicurezza nel rivolgersi a me dandomi del Lei o del Voi. Ho cercato di fare battute ironiche, ma nell’ironia lui vede serpeggiare il male e non la accetta, non la capisce. Il suo sorriso costante non è un sorriso beato, né felice, né ironico. E’ il triste sorriso della povertà. Della povertà buona. Della povertà di Pollyanna, della piccola fiammiferaia, della famiglia del Natale presente di A Christmas carol che fa ricredere anche Scrooge sulla propria malvagità.
Anche lui ha una famiglia. Povera. Senza televisione. Senza riscaldamento. Hanno comprato solo la radio perché adesso fanno la collezione della favole per la loro bambina e dentro c’è anche il cd…Collezione della quale la bambina noterà, in età più avanzata, mancare un unico numero: il 6, perché la storia di Barbablu non gliel’ha voluta prendere. Lì c’è un po’ di male. E nemmeno io mi fido più tanto di leggerla adesso.
Quando l’intera famiglia si presenta al mio cospetto, sembra di ritornare indietro di cento anni o di essere catapultati in una parabola biblica. In uno di quei luoghi comuni per cui il bene deve essere per forza fatto così. Come ce lo immaginiamo da sempre. Da quando eravamo piccoli e guardavamo La casa nella prateria.
Mai avrei pensato però che tale idea totalmente astratta e immaginaria, nonché fastidiosa per l’essere umano adulto mediamente intelligente, che disprezza tale concentrato di banalità e luoghi comuni, potesse esistere in carne ed ossa. E soprattutto qui, ad Alessandria, dove da sempre regna il male e si vede.
E invece proprio qui vive l’idiota di Dostojeski. Il bene perfetto che Kant pensava fosse idealmente raggiunto solo in Cristo, ma che invece no. E’ qui. E non fa i miracoli. Contro la bassezza del male qualunque, del male radicale, non poteva che esistere questo. Il bene dei poveretti. Altro che Cristo e i Santi e Madre Teresa e Gandhi.
Io il bene lo vedo solo in lui, e mi fa talmente ribrezzo che ormai sono totalmente votata al male e a Satana. Vi assicuro che ho conosciuto molti satanisti e tutti molto meno inquietanti di questo individuo. Lo vedo vivere in una casa di pietra, con il camino, e la legna da ardere. Che mangia la zuppa marrone con il pane nero ogni sera. Che al piano di sopra ha il nonno ammalato. Che fa giocare la bimba con le caprette o lanciandola in alto con sullo fondo il cielo azzurro e il prato verde. Che prende l’acqua nei secchi dal pozzetto di legno vicino a casa. Che ha la moglie che tossisce sempre e un giorno vedrà del sangue nel fazzoletto. Che ha la bambina con i riccioli biondi che non sa chi è Maria De Filippi. Che legge Famiglia Cristiana. Orfano. Analfabeta. Senza lavoro. Umiliato dai ricchi cattivi che lo fanno lavorare e lo sfruttano e lo frustano. Ma lui resiste per la sua famiglia e arriva la sera a casa con in spalla una fascina di grano da cui sua moglie, casalinga e sempre con il grembiule sopra l’abito lungo fino ai piedi un po’ a palloncino, fa il pane infarinandosi leggermente il naso, dettaglio che sotto i capelli un po’ spettinati la rende bellissima ai suoi occhi (soprattutto rispetto alla cattivissima figlia del suo capo, bionda ed elegantissima, truccata e con un neo vicino alla bocca che pur essendo bellissima è malvagia e lui la trova quindi ripugnante e fastidiosa). Che anche se è povero, fa l’elemosina ad un ubriacone al lato della strada dandogli una grossissima moneta grigia che è la sua paga della giornata. Che legge le fiabe alla bimba (ma non Barbablu) anche se è stanco dal lavoro. Che prega prima di cenare. Che santifica le feste con semplicità e senza fronzoli consumistici che non si può permettere e che incarnano il demonio.
Insomma, eccolo qui il bene dei poveretti. E sì, vi assicuro, è intollerabile. Talmente dolce e mieloso che dà la nausea. Talmente poveretto che ti fa stare male. Perché non può esistere davvero. E invece è lì. E tu non ti senti come Scrooge che decide di diventare buono, no, tu ti senti come Panzram e nella tua testa ripeti solo "I believe the only way to reform people is to kill them, I believe the only way to reform people is to kill them, I believe the only way to reform people is to kill them, I believe the only way to reform people is to kill them" (in inglese perchè, anche se nella tua mente, speri che il messaggio raggiunga più persone possibili).
E quindi, sì, alla fine scegli il male. Ma siccome non sei poveretta, scegli il male che più male non si può. E quando sei lì lì pronta per passare dal pensiero all’azione e impugnare le armi, l’unica cosa che può fermarti è leggere Peter Sotos con in sottofondo Nicole 12 e sullo schermo della tv August underground. E così ti riconcili con la meravigliosa e rassicurante brutalità del mondo. In questo modo, con una certa dose di male legale, esorcizzi quel bene che ti ha subdolamente infettato, e puoi ritornare ad essere più o meno normale.

giovedì 16 febbraio 2012

Alcuni metodi (abbastanza inefficaci) per sopravvivere a me stessa

 Per la serie: guarda un po’ cosa ti vado a scoprire alla bell’età di 28 anni! Ho infatti appreso solo in questi mesi che quella che pensavo essere pressione bassa era invece agorafobia. E che quelli che definivo cali di zuccheri erano invece attacchi di panico.
A compensare queste sconcertanti rivelazioni, ho anche appreso che quella che definivo ansia in realtà era felicità. E quella che credevo serenità, era noia.
Comunque, al di là della confusione che ho a livello emozionale, sempre che io possegga un livello emozionale, avendo scoperto di soffrire di attacchi di panico, ho mio malgrado cercato dei rimedi per superarli, in quanto sono povera e i poveri se la devono, come sempre, sbrigare da soli. Soprattutto se vivono in posti in cui la psicologia ha la stessa rilevanza sociale dell’alchimia, per cui gli psicologi vengono visti come strani maghetti che fanno le cose con la mente. E se tu, povera, vuoi usufruire di uno psicologo del servizio pubblico, devi comunque passare da altri 6 o 7 medici prima, tanto per essere sicuri di conoscere tutti il mostro che cerca un sostegno proprio da quello lì che fa le cose con la mente e che non è invece un uomo di scienza come loro. E poi ovviamente diffondere il tuo identikit. Quindi, come sono solita fare, mi sono arrangiata e rimboccata le maniche per fare a modo mio.
Devo dire che in realtà gli attacchi di panico non li ho per niente vinti. Tuttavia sono diventata invincibile nell’evitare le situazioni che li possono causare, il che per una povera psicopatica è già un ottimo traguardo.  E questo per me non è tanto un limite a quello che vorrei fare, quanto un problema organizzativo.
Allora, essendo che non posso evitare tutti i luoghi pubblici, anche se per me sarebbe un sogno, ho creato una personale classifica dei posti ok, quelli ok da ubriaca, quelli ok se accompagnata, quelli ok ma fingendomi morta e quelli assolutamente no mio dio ti prego.
Non so bene in base a cosa un posto finisca in una categoria piuttosto che in un’altra, però mi sono fatta coraggio e, per capirlo, ho iniziato a frequentare tutti i posti possibili e immaginabili che potrei frequentare in tutta la vita, per poter empiricamente e a posteriori inserire ogni luogo in una tipologia precisa e sapere, di conseguenza, come comportarmi. Da quanto analizzato, e vi assicuro, è stato un lavoro davvero lungo e faticoso, ho appreso che il posto peggiore per me rimane la posta. Lì, in una frequentazione di due giorni consecutivi, in cui mi sono inventata commissioni e raccomandate che in realtà non esistevano, ho collezionato ben due collassi. Uno senza nemmeno riuscire a raggiungere l’uscita. Con il conseguente allarme da parte di tutti i presenti che a fatica ho convinto a non chiamare un’ambulanza. Ho detto la solita cosa della pressione bassa, ed è sembrato andare bene.
Quindi in posta non ci posso assolutamente andare. Tuttavia è facile delegare qualcuno, quindi non è un grosso problema. Banca vado bene accompagnata. Mezzi pubblici niet.  Quelli mai, ma tanto c’ho la macchina. La macchina ok, anche in coda. Concerti sì, se accompagnata e ubriaca. Cene con amici e parenti sì, ma fingendomi morta. Veterinario no. Ospedale assolutamente no. Soprattutto durante operazioni chirurgiche. Ho infatti deciso per testare la mia resistenza durante un ipotetico intervento, di farmi asportare chirurgicamente un neo sulla schiena. Benissimo, sono collassata anche se ero sdraiata e avevo la mascherina dell’ossigeno. E non è per impressione del sangue, dei tagli, delle cose. Chi mi conosce sa che invece apprezzo molto il genere. Quindi se dovessi aver bisogno di andare in ospedale per qualche motivo non potrò fare altro che lasciarmi morire a casa. Vabbè, per ora sono giovane e forte. Spero di trovare una valida soluzione entro la mezz’età, che è lì che cominciano i problemi.
Negozi affollati no. Altrimenti vado bene anche da sola. Supermercati vado bene accompagnata, ma solo se ci sono già stata in precedenza. Mostre, musei, et similia sono una sofferenza, ma devo per forza frequentarli, non come gli ospedali che se mai mi lascio morire. Lì resisto solo se faccio un giro di perlustrazione iniziale che mi consente di individuare le vie d’uscita. Sagre di paese, solo se ubriaca tanto da potermi fingere morta.
Analizzando quindi le categorie iniziali, si può notare che la maggior parte dei luoghi posso affrontarli da ubriaca o accompagnata. Diciamo che quindi la mia personale cura contro gli attacchi di panico consiste nell’alcol e nell’avere qualcuno con cui instaurare un rapporto di dipendenza e morbosità tale da non potersi quasi mai separare, qualcuno abbastanza paziente da accompagnarti in tutti i posti appartenenti alla relativa categoria. Fortunatamente a 16 anni mi sono portata avanti con il lavoro, iniziando a bere le cose peggiori del mondo, che mi hanno spappolato lo stomaco rendendomi praticamente intollerante all’alcol (questo ovviamente è un bene, perché basta pochissimo per sbronzarmi e stare male ^^), e soprattutto conoscendo il ragazzo che sarebbe diventato l’uomo che ho sposato. Quindi non sono arrivata a 28 anni del tutto sprovveduta, ma avendo già alcol e rapporto morboso come sicuro salvagente della mia vita. E infatti, checché ne dicano, sono cose che mi sono tornate utili.
Per quanto riguarda l’ansia, anche quella ho imparato a combatterla empiricamente, accendendo la tivvù. NON INTERNET, perché la sociopatia la accuso anche a livello virtuale e se accendo il computer vengo inspiegabilmente sempre ingoiata da fb che mi provoca attacchi di panico, proprio come se fossi in una piazza gremita.
E sempre in tema di ansia, in questo periodo ho fatto un’altra eccezionale scoperta, come accennavo all’inizio. E’ stata proprio un’illuminazione che mi ha colto di sorpresa un mattino appena sveglia: spalanco gli occhi con la tachicardia e dico, no cazzo mi sveglio già con l’ansia… Poi mi fermo a pensare e capisco che non è ansia. E’ tipo, non so bene come dire, forse, bo, emozione. Cioè emozione è generico, perché le emozioni possono essere infinite…ma quella era proprio emozione di quando uno dice sono emozionato. Cioè qualcosa di felice. Di gioioso. Cazzo. Infatti sto passando uno dei periodi più belli della mia vita e quindi ha più senso che mi svegli felice piuttosto che ansiosa.
Purtroppo faccio ancora tantissima fatica a distinguere l’ansia dalla felicità, non so come faccia la gente normale a capirlo in automatico. Comunque, devo dire che questo mi ha portato a riconsiderare una serie di aspetti della mia vita e del mio spirito. In primis ho dovuto ammettere che, contro ogni aspettativa, io in realtà non sono una persona depressa e con un’innata tendenza al suicidio e al disprezzo della vita, bensì sono una persona FELICE, molto felice. Pensavo ansiosa. E invece no. FELICE. Cazzo. E pensare che ho sempre fatto di tutto per negarlo. Cioè la felicità fa un po’ anche povertà mentale. Almeno credevo così.
Comunque non sono proprio certa dei risultati di questa nuova impostazione mentale. Devo ancora trovare un metodo empirico che mi consenta di distinguere uno stato dall’altro con assoluta certezza. Chi mi conosce un po’ si accorge facilmente di tale differenza dal colore della mia pelle, che cambia moltissimo a seconda del mio umore, dal mio grado di loquacità, dalla frequenza del turpiloquio e dagli occhi che mi cominciano a girare tantissimo quando vengo attanagliata dai miei strani e oscuri pensieri.
Tendenzialmente l’unica discriminante che sono riuscita a trovare è che quando provo degli stati emotivi negativi, come ansia e depressione, sono naturalmente attratta dal black metal, che mi mette sempre di buonissimo umore. Però non è proprio un metodo scientifico esatto, perché il black metal è curativo per tantissime altre cose, tipo il freddo dell’inverno o guidare con la nebbia. Quindi, vabbè, per capire la felicità devo ancora sperimentarla per un po’. Ma fortunatamente, sempre che non debba improvvisamente recarmi in ospedale per qualche motivo, il che appunto significherebbe dovermi lasciare morire, la mia vita dovrebbe essere ancora abbastanza lunga e probabilmente anche felice da consentirmi di trovare un metodo scientifico anche per queste nuove ed impenetrabili categorizzazioni. O se no basta ascoltare un po’ di black metal ogni giorno, che funziona un po’ come la mela che tiene lontano il medico, ma con gli psicologi e i mali dell’anima. Che sia felice o disperata, quello non fa mai male e un sorriso me lo ridà sempre.

venerdì 20 gennaio 2012

Festeggiare le feste

I mirabolanti giorni di festa si sono “ahimè” conclusi. Prima che la mia faccia riprenda la sua forma normale, dopo che è stata obbligata a mantenere un sorriso di gomma per le ultime tre settimane, ci vorrà un po’ di tempo. Come il materasso memory che si ricorda la tua forma e se lo schiacci con la mano prima che ritorni normale ci va un po’.
Comunque meno male, dai, l’obbligo di festeggiare le feste è stato adempito anche per quest’anno. E finalmente posso tornare a fare il cazzo che voglio senza dover rendere conto a nessuno della noia che mi mettono i brindisi, le decorazioni, le luci di Natale, gli auguri, le musiche natalizie, i botti di Capodanno, ecc ecc ecc.
Posso riporre il mio sorriso di circostanza insieme alle mutande rosse in fondo al cassetto della disperazione che non verrà riaperto fino all’anno prossimo. Cioè oddio, il sorriso di circostanza è meglio conservarlo tra le mutande di tutti i giorni da mettere in negozio, perché non vorrei mai dimenticarlo a casa durante un giorno di apertura, se no che figura ci farei con i clienti…
Devo dire che le feste per me sono un po’ dolciamare come la canzone di Barbara D’Urso.
Più precisamente: Natale e Santo Stefano = amarezza. 27, 28, 29, 30 = insipidità con retrogusto amarognolo misto ad ansia da prestazione per la notte di Capodanno, nonché ansia dovuta all’organizzazione della serata stessa. 31 = picco di amarezza. 1 = picco di amarezza a cui si somma la nausea e il post sbronza personale e di chi ti sta vicino. Dal 2 = dolcezza mista a fancazzismo, nichilismo, misantropia, autolesionismo e depressione post traumatica.
Qualche anno fa il problema più grande per me risiedeva nei rapporti con i parenti, che pur non esistendo od essendo di un’aridità sconvolgente, rispuntavano magicamente sotto Natale, come il muschio secco del presepe, dietro l’albero di Natale con le palle che cadono. Tanto per dare un’immagine figurata della freschezza e genuinità di tali rapporti.
Devo dire però che con il tempo i parenti si sono estremamente diradati. Un po’ di loro sono morti. Un po’ si sono stufati del mio cinismo. Un po’ hanno trovato sconveniente fare gli auguri di Natale all’unica satanista dichiarata della famiglia (in realtà lo divento il 24 dicembre di ogni anno e cesso di esserlo il 7 gennaio). Insomma il satanismo delle feste, la mia scarsa loquacità telefonica, la difficoltà a rispettare le tradizioni e il ciclo della vita hanno scremato attentamente una rosa di parenti che in realtà non è mai stata nemmeno troppo rigogliosa. E così a Natale è stato tutto molto semplice. Genitori e poco più. 
In negozio la cosa si è complicata un po’. Ma devo dire che lo spirito necrofilo alessandrino porta più gioia il 2 novembre rispetto al 25 dicembre. Sempre meglio festeggiare molti morti piuttosto che una nascita, anche solo per una questione quantitativa. E quindi ci siamo fatti un po’ di auguri, ho ricevuto qualche panettone Motta, qualche spumante Rocca dei forti, e un portaqualcosa a forma di cuore in ceramica finissima con tutti i fiori orribili sopra.
Quando poi mi sono stufata di dire a tutti auguri intorno al 22 dicembre (chissà perché si deve cominciare con tanto anticipo, mica è una di quelle cose con cui è meglio portarsi avanti!) ho messo un bel cartello con scritto auguri a tutti e mi bastava fare un cenno con il capo per ricambiare. Cercare di limitare i dialoghi è un’arte che si impara negli anni e ormai io ne sono maestra.
Quindi è per questi motivi che la giornata peggiore del festeggiamento delle feste risulta essere il Capodanno. Anzitutto a Capodanno si deve per forza fare qualcosa. E questo per me è un problema. Metti che ho mal di testa. Metti che ho l’influenza. Metti che sono di pessimo umore. Metti che voglio stare per i cazzi miei. Metti che non ho voglia di bere. Metti che non ho fame. Metti che non ho voglia di ridere. No, non posso. Devo per forza festeggiare la festa. E questo mi fa venire mal di testa, anche un po’ di influenza, mi mette di pessimo umore, mi spinge a voler stare da sola, mi toglie fame, sete e voglia di ridere. E quindi ogni Capodanno per me è così. Da sempre.
Purtroppo io me ne starei a casa da sola al buio a piangere, ma non posso perché sono sposata con Mister Re della festa. E siccome abbiamo sviluppato negli anni un rapporto simbiotico e morboso che ci impedisce di separarci anche solo per una sera, e siccome a Capodanno, nella solita sfida dialettica tra chi vuole uscire e fare cose e chi vuole morire, tende a vincere lui, ecco che da anni a Capodanno ci si vede con gli amici. Non che si faccia chissà cosa. Ma è proprio l’idea di dover essere felice che mi rattrista. Non posso farci niente, è più forte di me. E’ anche l’unico giorno dell’anno in cui se mi ubriaco divento triste. Anzi, peggio: è l’unico giorno dell’anno in cui incredibilmente reggo l’alcol, per cui mi dico “quest’anno alle 16 devo essere già sbronza” così magari da collassare in bagno prima di mezzanotte, e invece mi ritrovo l’unica perfettamente lucida alle 5 del mattino. Spossata dal sonno e soprattutto dalla noia di vedere cose che fanno molto ridere se sei ubriaco e molta tristezza se sei lucido. Anche perché so benissimo che mentre tutti si dimenticheranno quei momenti e saranno salvati dalla dolcezza dell’oblio,  io sarò destinata a ricordare duramente tutto. E diverrò memoria storica del gruppo. Sarò quella che, quando si riguarderanno le foto, avrà l’onere di raccontare la situazione e le motivazioni che hanno spinto suo marito ad indossare un portarotoli di carta igienica come copricapo. Sarò io a dover raccontare a tutti delle foto in pose mistiche. Quelle in pose sataniche. Quelle in pose finto sexy. Tutte cose che davvero non sono divertenti. Se non sei ubriaco.
Dal 2 poi, quando finalmente sono lasciata libera di essere triste e sola, rieccomi felice e piena di vita. Ed ecco infatti gli aspetti meravigliosi di queste improvvisamente dolcissime vacanze:
1) Video di Mariah Carey zoccolissima con Justin Bieber minorennissimo che sembra suo nipote frocio molestato dalla zia vecchia, il quale subirà un trauma irreversibile associato all’abito di babbo Natale, che insieme cantano un’orribile canzone natalizia che la zia vecchia cantava quando era giovane. Il tutto in uno sfavillante ed irreale centro commerciale delle fiabe in cui nevica (ma solo dove c’è Mariah), con tanto di alberi di natale con tantissime palle, pacchetti natalizi, pupazzo di neve finta, slitta, abito da babba natale troia indossato dalla zia vecchia, marchette continue alle multinazionali ed invito allo shopping compulsivo svolto in primis da Justin e dai suoi amichetti multicolor. E il povero Justin che già ha a che fare quotidianamente con le flotte di ormoni agguerriti delle adolescenti, in questa situazione si trova un po’ a disagio di fronte alla flotta di ormoni della Mariah che fa di tutto per essere seducente, ma che invece fa tantissima tristezza, tipo Baby Jane. Però lui alla fine le dice lo stesso che All I want for Christmas is you, anche se ha il carrello pieno di cose che non sono you. Chissà se Justin si è reso conto che quel puttanone di quarta categoria altro non è che lo specchio di quello che sarà anche lui quando gli ormoni delle adolescenti non solo lo ignoreranno, ma lo troveranno repellente. E allora cercherà pubblico tra le cougar quarantenni, si metterà un vestito da babbo natale sexy, cercherà di mostrare che ha ancora qualche cartuccia da sparare, come si suol dire, e metterà nel video una ragazzina minorenne, che allora sarà famosissima, e a cui lui ammiccherà tantissimo, sperando di essere ancora avvenente, ma suscitando solo l’indignazione della ragazza, del pubblico e anche delle forze dell’ordine che lo arresteranno per pedofilia. Più o meno. L’alternativa è che succeda tutto uguale, ma in versione gay.
2) L’irruzione nella mia vita di Tacchi Alti, ovvero la mia nuova migliore amica virtuale, che purtroppo conosco solo grazie ai suoi video di Youtube. Di lei non voglio dire niente, perché non serve. Lancio solo un appello: Tacchi alti ti prego continua a mettere i video su Youtube e ad essere te stessa perché sei un mito e io ti voglio bene. Non dare retta ai troll della rete. Nel mio cuore sei insieme a Laura Scimone uno dei miei angeli custodi che portano gioia e luce alla mia esistenza. Grazie. Anche Gemma ti voglio bene, ma meno, perché hai esagerato con quella cosa del suicidio.
3) Il calendario di Cronaca Vera
4) Gears of war 2. Sì, lo so che c’è già il 3 e che è vecchio, ma a noi frega un cazzo. Io e mio marito, armati fino ai denti, abbiamo fatto un culo così a migliaia di locuste, rimanendo chiusi in casa e appiccicati al divano per tipo 4 giorni consecutivamente, senza far altro che giocare. Facendoci venire le convulsioni e gli attacchi epilettici, alienandoci dalla realtà, perdendo completamente il senso del tempo e dello spazio, alimentando la nostra sete di sangue, violenza, guerra, armi e rivalsa sul prossimo, soprattutto se diverso da te. Questa per noi è una tradizione natalizia al pari del cotechino e delle lenticchie, che si ripete negli anni, ma di cui non ci stanchiamo mai.
5) Il molto cibo molto buono e le persone dell’amore delle persone dell’amore della mia vita e il mio cane dell’amore dell’amore del cane. Ma questo sempre. Quindi ok.

giovedì 12 gennaio 2012

Fenomenologia di un uomo politico

La seguente storia è ispirata a fatti realmente accaduti. Nomi, luoghi e dettagli sono stati modificati per i soliti motivi di privacy.


Sandro Scopelli portava il suo nome con una certa fierezza. Aveva 15 anni, i capelli lunghi, i vestiti neri, la passione per il black metal e delle iniziali fantastiche da incidere sul suo banco di scuola. SS.  Che soddisfazione avere 15 anni e fare la scuola professionale, sputando in faccia alla società conformista che ti vede già operaio o muratore per il resto della vita. Che bello poter ascoltare i gruppi che fanno UAHAHAHAHAH fortissimo con le chitarre e le facce tutte truccate e dirsi che è per quello che non piaci alla gente.
Già Sandro non piaceva alla gente. Perché era brutto. Perché era grasso. Perché era permaloso. Perché non brillava di simpatia e nemmeno di intelligenza.
E se nasci così o vivrai per sempre da perdente oppure ti dai un tono. Sandro decise di darsi un tono e così passò, nel giro di una settimana, dall’ascolto di Masini a quello dei Dimmu Borgir. Passò dalla camicia di flanella a quadri con le macchie di unto del panino, al chiodo con catenazze nell’arco di un paio di gite di shopping con la mamma all’Outlet. E passò dal disegnare con i gessetti sul muretto dell’oratorio un innocentissimo cazzo stilizzato, all’intagliare le svastiche sul suo banco di scuola. E le SS. Già. Decise infatti di sposare quella frangia di metallo estremo che ti vuole anche un po’ nazista. Sì, così almeno poteva dare più fastidio ancora alle ragazzine che ridevano di lui alle sue spalle.
Insomma Sandro Scopelli portava il suo nome con una certa fierezza perché quando l’insegnante lo rimproverava “Scopelli la smetta di rovinare il banco! E poi cosa sono quelle!!! SS!!!! Questa è apologia di nazismo!!” lui poteva glissare facilmente, cosa di cui sarebbe diventato maestro negli anni a venire, inventando una scusa che lo sollevasse dalle sue responsabilità: “Ma no, sono solo le mie iniziali!!”
E questo era Sandro a 15 anni. Non amava nulla di quello che apparentemente era la sua passione, ma sapeva bene come fingere di essere ciò che non era per potersi più facilmente difendere dal mondo.
Sandro era un coniglio. Da quando lo avevano pestato forte alle scuole elementari e aveva scoperto che il termine “costituzione robusta” che usava sua mamma, lei non lo intendeva come il resto del mondo. Era grasso, ma non era forte. Era flaccido. Non riusciva a muoversi e a scappare. E non sopportava il dolore per niente bene. E così quando lo avevano pestato lui le aveva prese, e senza nemmeno troppa dignità.
A casa aveva pianto, umiliato e inferocito con il mondo, e giurò che si sarebbe vendicato. Ma più avanti. Quando avrebbe potuto farlo senza sporcarsi le mani di sangue e i calzoni di fango. E aveva capito che doveva solo trovare il modo di andare avanti senza prenderne troppe.
Arrivato all’adolescenza, bè, era giunto alla conclusione che, emarginato per emarginato, era meglio crearsi un’immagine forte e che poteva incutere soggezione.
Sandro diventò così metallaro e nazista nell’arco di una settimana.
Poi però a 17 anni capì un’altra cosa. Che così dava troppo nell’occhio. Che dava troppo fastidio. Che era nel mirino di tutta la gioventù della sua città, da sempre una città rossa, rossa come la vergogna e il comunismo. E soprattutto era nel mirino di suo padre. Quel figlio sempre vestito di nero puzzava di fascio al punto che cenare era diventato intollerabile. Per lui, da sempre uomo politicamente impegnato, da sempre dalla parte dei più forti, da sempre comunista, quel figliaccio nero dava proprio fastidio.
Sandro invece non voleva dar fastidio a nessuno. All’inizio l’emarginazione aveva provocato in lui un senso di riscatto che percorreva le vie della provocazione, ma quelle vie si erano presto rivelate uno sciocco labirinto di solitudine che lo tagliava ancora più fuori dalla società. E lui invece non voleva essere tagliato fuori. Voleva disperatamente farne parte. Essere accettato. Anche se non per quello che era. Anche perché di tanti quesiti che Sandro si era posto, l’unico che non lo aveva mai preoccupato era proprio quello: chi era lui? Ma effettivamente a lui non fregava un cazzo chi era. A lui fregava di sopravvivere. Anzi, adesso che aveva ottenuto la sopravvivenza, mirava a qualcosa di più. L’integrazione.
E così nell’arco di una settimana Sandro decise che i suoi lunghi capelli sarebbero facilmente potuti diventare dei dread. Andò all’outlet e questa volta con suo papà, che fu fierissimo di regalargli una maglietta del Che con cui sostituire quello scempio di felpa dei Marduk in cui le demonesse fanno un pompino a Gesù.
Com’era fiero di suo figlio quel giorno. Quando si tolse quella felpa e improvvisamente con quella bella maglietta rossa nessuno si voltava più a guardarli. Nessuno li additava più nel parcheggio dove avevano lasciato l’auto prima dello shopping e dove, quando erano arrivati, suo figlio era stato fischiato da un gruppetto di giovinastri alternativelli che se ne stavano spaparanzati su una panchina dell’outlet con a fianco i sacchettini marchiati Adidas che contenevano le loro comunistissime Gazzelle da 150 euro.
Sandro uscì dall’outlet senza essere notato. Maglia del Che. Panatloni extralarge. Un sacchettino dell’Adidas e uno della Converse.
Il giorno dopo buttò i cd degli Impaled Nazarene e comprò i Subsonica. Era ancora più semplice far finta che gli piacessero. Nel frattempo aveva imparato a suonare il basso. Oddio, imparato. Sapeva fare Come as you are e Smoke on the water. Ma era sufficiente per entrare in una band ed andare a suonare nei centri sociali e al festival dell’unità.
E fu proprio al festival dell’unità che Sandro ebbe un’ennesima folgorazione.
Mentre era sul palco e suonava, senza essere né additato né insultato né odiato da nessuno, capì che poteva avere di più. Capì che non voleva più essere solo ignorato, voleva essere considerato. Dalla sopravvivenza, passando attraverso una breve fase di ribellione e una più importante di anonimato, Sandro giunse così all’impegno politico.
All’inizio fu molto facile. Suo padre era da anni membro del partito e non aspettava altro che il suo unico figlio facesse il suo debutto in società. E così fu. Lo portò alla prima riunione. E lì Sandro rimase folgorato.
Improvvisamente divenne un compagno. Compagno di tutti. Compagno di un tutto che lo rendeva potente. Arrivò lì ed era già qualcuno, in quanto figlio di un membro storico del partito. Fu semplicissimo avere il rispetto di tutti.
La prima volta ascoltò. Capì subito cosa doveva fingere di essere per essere considerato. Era ancora più semplice che fingersi alternativo e fan dei Marlene Kuntz. Era ancora più banale. Buonismo spicciolo, dietrologia, demagogia, antirazzismo e pacifismo. Con un pizzico di anticapitalismo, ma poco poco, da non  dare troppo fastidio. Diciamo anticapitalismo con le Converse, ecco.
La seconda volta intervenne. Dopo una settimana propose di aiutare a servire ai tavoli della festa dell’unità. I suoi vecchi compagni di band avevano ormai un altro bassista e mentre lui serviva e loro suonavano capiva che non è lo stare su un palco che ti porterà da qualche parte. Bisogna invece imparare a servire. E mentre serviva Sandro ebbe un’altra illuminazione. Poteva avere ancora di più che il rispetto e la considerazione. Già. Poteva avere il potere. Anzi, voleva avere il potere. Doveva avere il potere.
Alla riunione successiva chiese la parola e parlò un po’ di più. Continuò a servire ai tavoli. Continuò a dire sempre una parola in più, riunione dopo riunione. Servire e strisciare. Quello gli veniva benissimo. Lo aveva imparato alle elementari quella volta che lo avevano picchiato. Lui aveva detto, strisciando nel fango “farò quello che vorrete, ma lasciatemi”. Anche ora nel suo cuore diceva, strisciando nel fango, farò quello che volete, ma datemi del potere.
E così parola dopo parola, vassoio dopo vassoio Sandro ebbe una proposta. C’erano state le elezioni, e come succedeva da 25 anni, avevano vinto. Gli chiesero se voleva una poltrona come assessore. Accettò immediatamente, senza nemmeno sapere di che cosa si sarebbe trattato. Tanto lui non aveva studiato niente, si era fermato prima ancora di diplomarsi. Aveva capito che lo studio non portava risultati di nessun tipo. Se non l’emarginazione. Lui faceva parte di un gruppo invece. Non aveva tempo di starsene da solo sui libri. E anche la musica non serviva più. Certo, cantava De Gregori, Guccini e Bella ciao nei cori ubriachi delle feste di partito. E andava bene perché erano ancora più semplici dei testi dei Subsonica e dei Marlene.
Comunque, neanche il tempo di chiedersi se era preparato per fare l’assessore e Sandro ebbe la sua poltrona. Ormai aveva 30 anni e gavetta ne aveva fatta. Certo, senza maturare nessuna competenza o qualifica reale, ma agendo come sapeva fare lui. Fingendo. Sottomettendosi ai pensieri altrui. Ogni giorno una parola strisciante in più. Ogni estate a portar piatti a destra e sinistra, con il caldo degli agnolotti fumanti che gli si condensava sulla fronte. E con la fame che lo divorava fino a mezzanotte, quando poteva finalmente sedersi, mangiare tantissimo e cantare bella ciao.
Alla fine fu molto semplice per lui. Sapeva assecondare i più forti e fu quello che fece. Sapeva chinare la testa e fu quello che fece. Sapeva fingere di essere qualcosa che non era e fu quello che fece. E a 30 anni Sandro, che aveva ormai tagliato i dread da qualche anno, decise che era arrivato il momento di togliersi la maglietta del Che e indossare una camicia.
Il primo giorno in Comune Sandro arrivò a piedi con la camicia bianca a i pantaloni eleganti. Dopo una settimana aveva la  cravatta e la riga da una parte. Dopo un mese arrivava con un comunistissimo suv nero, che per non risultare troppo fascista aveva un adesivo della bandiera della pace e una svastica con il divieto nel vetro posteriore.
Sandro divenne Assessore alla pubblica istruzione. La sera andava dal suo amico che un tempo era pescivendolo e adesso, dopo la sua stessa gavetta, aveva avuto l’Assessorato alle politiche sociali e insieme guardavano la partita in tv.
Diventato assessore aveva anche trovato una ragazza, probabilmente frigida, ma sicuramente gnocca, da mostrare ai compagni e di cui vantarsi (ma anche da tradire con la prima mignotta disposta a fargli almeno un pompino per dieci euro).
E proprio durante uno di questi pompini, mentre si sentiva come quel Cristo che portava sulla maglietta e mentre immaginava che il trans cinquantenne che lo lavorava fosse una di quelle demonesse che avevano tanto indignato suo padre, pensò che probabilmente era arrivato dove voleva. Aveva il potere e ora poteva vendicarsi dei torti subiti. Sbattendo a tutti in faccia il suo successo. E rendendo un po’ più difficile la vita a tutte quelle persone che lo avevano deriso da bambino e da ragazzo.
Decise per esempio di tagliare i fondi a quell’Istituto professionale che frequentava e di sottoporlo a qualche controllo edilizio in più fatto da un suo amico, anzi compagno, che avrebbe trovato la struttura non adeguata.
E arrivato, insieme a suo papà, al sindaco e al compagno muratore, a fare il sopralluogo nella sua vecchia scuola e a comunicare che l’Istituto avrebbe chiuso i battenti a breve, entrò dentro sentendosi come un dio, che aveva in mano le sorti di tutto il personale che lavorava lì, di tutti gli studenti, della struttura stessa. La casualità volle che l’incontro con il Preside fosse fissato proprio in quella che era la sua vecchia classe. Entrò e vide che c’era ancora il suo banco. Si avvicinò alla cattedra per presentarsi e riconobbe il suo vecchio professore, che immediatamente lo acclamò: “Sandro! Ma sei proprio tu? Bentornato! Fatti stringere la mano! Hai già fatto vedere il tuo vecchio banco al sindaco e ai tuoi colleghi? Guardate qui! Si riconosce perché sono rimaste le sue iniziali: SS!”. E mentre il padre impallidiva ricordando benissimo cosa era suo figlio e la fatica che aveva fatto per nasconderlo e cambiarlo, e mentre i compagni si guardavano con aria interrogativa sulla strana forma runica che possedevano quelle S, Sandro sfoderò il suo miglior sorriso e, rosso di vergogna e comunismo, cominciò il discorso che avrebbe chiuso l’Istituto, licenziato il professore e iniziato la sua lentissima e strisciante vendetta sulla società.