mercoledì 29 febbraio 2012

Il bene dei poveretti


Le persone che mi capita di incontrare quotidianamente costituiscono il tessuto di una città profondamente e sordidamente malvagia.
La mediocrità che sono costretta a subire infetta la mia vita e la mia giornata, costellandola di episodi e chiacchiere inutili, volte sempre ad una malvagità mediocre ma feroce, fatta di pettegolezzi, invidie, ripicche, falsità e malumori. Una malvagità che non si estrinseca in gesti esemplari, da poter identificare e additare facilmente. Un tipo di male particolare, che si insinua nella profondità della gente comune portandola ad essere più contenta per una disgrazia altrui che per un lieto evento. Un po’ il male radicale di Kant, via. Un male basso. Senza fantasia. Senza coraggio. Misantropo, ma trattenuto nei ranghi del perbenismo e della rispettabilità. Della facciata da brave persone, in cui seno serpeggia però il male. Il male qualunque. Il male quotidiano. Il male represso. Il male nascosto. Il male banale. Il male dei poveretti.
E vivere a contatto con il male dei poveretti è alquanto faticoso. Il senso di nausea talvolta mi attanaglia e torce le budella. Mi fa erigere muri di incomunicabilità, che mi salvaguardano dalle bassezze umane. E che mi isolano da questo posto. Sono immune all’invidia. Alla chiacchiera. Al pettegolezzo. A quel senso malato e angosciante di sadica superiorità di fronte al dolore altrui. Mi proteggo in ogni modo dal serpeggiare del male dei poveretti, mi guardo costantemente le spalle, cerco di non dare confidenza. Mi mantengo sempre superiore. E non è facile in una città in cui anche i muri puzzano di malignità. In cui tutti i cittadini sono dei poveretti. E dei malvagi.
Però di fronte a questa minaccia ho imparato ad erigere delle barriere e delle protezioni. E per quanto il male dei poveretti sia nauseante, mai mi sarei aspettata l’irruzione nella mia vita di qualcosa che avrebbe potuto farmi ricredere sul mio giudizio che catalogava il male dei poveretti come la peggior piaga che affligge l’intelletto, lo spirito e l’intera umanità.
E invece, inaspettatamente, ben peggio del male dei poveretti, un bel giorno mi sono trovata di fronte al bene dei poveretti.
Anzitutto il bene dei poveretti, al contrario del male, non è equamente e mediamente distribuito all’interno di migliaia di individui che popolano questa città. No. E’ tutto completamente concentrato in un unico individuo, che ne contiene quindi una dose concentratissima ed insopportabile. Ed essendo l’unico portatore di tale viscido principio, egli si identifica totalmente con esso, non avendo alcuna individualità altra. Il bene dei poveretti e questo individuo sono la stessa cosa. Mai avevo percepito tale principio scisso da tale individuo e mai potrò percepire tale individuo scisso dal suo principio.
Il bene dei poveretti mi si è presentato togliendosi il cappello di pezza sgualcita blu del nonno di Pollyanna, che indossa sempre, e facendo un piccolo inchino. Talvolta arriva quasi a genuflettersi.
Le prime parole che pronuncia sono sempre buongiorno (e fin qui ok) e scusa e grazie. Anzi scusi e la ringrazio, se non addirittura scusate e vi ringrazio. Le pronuncia di fila, così, a cazzo, senza ragione. Appena entra: Buongiorno scusi la ringrazio. E poi per tutto il tempo rimane lì, a capo chino, strizzando tra le mani il cappello.
La sua bontà è talmente elevata che dà un senso di nausea profondo ed indicibile. Ti fa tremare le ginocchia. Non c’è falsità nei suoi modi così esasperatamente gentili. Sono sinceri. Sempre. Il timore reverenziale e il rispetto esagerato che nutre verso qualunque individuo è assolutamente autentico e profondo. Il suo bene non si estrinseca in atti buoni di particolare valore o rarità, non va in Africa a curare i bambini o cose simili. Lui vive nel suo essere semplice e poveretto una bontà che non è magnifica e accecante, ma nemmeno volta alla gloria personale e al riconoscimento altrui. Lui ha una bontà banale, scontata, vuota, semplice, povera. Esattamente come è lui. Anche se si cerca di gettare il seme del male e dell’odio nel suo animo, non si hanno risultati, ma solo stupefacenti riscontri dell’invincibilità di tale principio contro qualunque tentativo di corruzione.
Ho cercato diverse volte di rivolgermi a lui dandogli del tu, per esempio, ma senza mai scalfire la sua sicurezza nel rivolgersi a me dandomi del Lei o del Voi. Ho cercato di fare battute ironiche, ma nell’ironia lui vede serpeggiare il male e non la accetta, non la capisce. Il suo sorriso costante non è un sorriso beato, né felice, né ironico. E’ il triste sorriso della povertà. Della povertà buona. Della povertà di Pollyanna, della piccola fiammiferaia, della famiglia del Natale presente di A Christmas carol che fa ricredere anche Scrooge sulla propria malvagità.
Anche lui ha una famiglia. Povera. Senza televisione. Senza riscaldamento. Hanno comprato solo la radio perché adesso fanno la collezione della favole per la loro bambina e dentro c’è anche il cd…Collezione della quale la bambina noterà, in età più avanzata, mancare un unico numero: il 6, perché la storia di Barbablu non gliel’ha voluta prendere. Lì c’è un po’ di male. E nemmeno io mi fido più tanto di leggerla adesso.
Quando l’intera famiglia si presenta al mio cospetto, sembra di ritornare indietro di cento anni o di essere catapultati in una parabola biblica. In uno di quei luoghi comuni per cui il bene deve essere per forza fatto così. Come ce lo immaginiamo da sempre. Da quando eravamo piccoli e guardavamo La casa nella prateria.
Mai avrei pensato però che tale idea totalmente astratta e immaginaria, nonché fastidiosa per l’essere umano adulto mediamente intelligente, che disprezza tale concentrato di banalità e luoghi comuni, potesse esistere in carne ed ossa. E soprattutto qui, ad Alessandria, dove da sempre regna il male e si vede.
E invece proprio qui vive l’idiota di Dostojeski. Il bene perfetto che Kant pensava fosse idealmente raggiunto solo in Cristo, ma che invece no. E’ qui. E non fa i miracoli. Contro la bassezza del male qualunque, del male radicale, non poteva che esistere questo. Il bene dei poveretti. Altro che Cristo e i Santi e Madre Teresa e Gandhi.
Io il bene lo vedo solo in lui, e mi fa talmente ribrezzo che ormai sono totalmente votata al male e a Satana. Vi assicuro che ho conosciuto molti satanisti e tutti molto meno inquietanti di questo individuo. Lo vedo vivere in una casa di pietra, con il camino, e la legna da ardere. Che mangia la zuppa marrone con il pane nero ogni sera. Che al piano di sopra ha il nonno ammalato. Che fa giocare la bimba con le caprette o lanciandola in alto con sullo fondo il cielo azzurro e il prato verde. Che prende l’acqua nei secchi dal pozzetto di legno vicino a casa. Che ha la moglie che tossisce sempre e un giorno vedrà del sangue nel fazzoletto. Che ha la bambina con i riccioli biondi che non sa chi è Maria De Filippi. Che legge Famiglia Cristiana. Orfano. Analfabeta. Senza lavoro. Umiliato dai ricchi cattivi che lo fanno lavorare e lo sfruttano e lo frustano. Ma lui resiste per la sua famiglia e arriva la sera a casa con in spalla una fascina di grano da cui sua moglie, casalinga e sempre con il grembiule sopra l’abito lungo fino ai piedi un po’ a palloncino, fa il pane infarinandosi leggermente il naso, dettaglio che sotto i capelli un po’ spettinati la rende bellissima ai suoi occhi (soprattutto rispetto alla cattivissima figlia del suo capo, bionda ed elegantissima, truccata e con un neo vicino alla bocca che pur essendo bellissima è malvagia e lui la trova quindi ripugnante e fastidiosa). Che anche se è povero, fa l’elemosina ad un ubriacone al lato della strada dandogli una grossissima moneta grigia che è la sua paga della giornata. Che legge le fiabe alla bimba (ma non Barbablu) anche se è stanco dal lavoro. Che prega prima di cenare. Che santifica le feste con semplicità e senza fronzoli consumistici che non si può permettere e che incarnano il demonio.
Insomma, eccolo qui il bene dei poveretti. E sì, vi assicuro, è intollerabile. Talmente dolce e mieloso che dà la nausea. Talmente poveretto che ti fa stare male. Perché non può esistere davvero. E invece è lì. E tu non ti senti come Scrooge che decide di diventare buono, no, tu ti senti come Panzram e nella tua testa ripeti solo "I believe the only way to reform people is to kill them, I believe the only way to reform people is to kill them, I believe the only way to reform people is to kill them, I believe the only way to reform people is to kill them" (in inglese perchè, anche se nella tua mente, speri che il messaggio raggiunga più persone possibili).
E quindi, sì, alla fine scegli il male. Ma siccome non sei poveretta, scegli il male che più male non si può. E quando sei lì lì pronta per passare dal pensiero all’azione e impugnare le armi, l’unica cosa che può fermarti è leggere Peter Sotos con in sottofondo Nicole 12 e sullo schermo della tv August underground. E così ti riconcili con la meravigliosa e rassicurante brutalità del mondo. In questo modo, con una certa dose di male legale, esorcizzi quel bene che ti ha subdolamente infettato, e puoi ritornare ad essere più o meno normale.

giovedì 16 febbraio 2012

Alcuni metodi (abbastanza inefficaci) per sopravvivere a me stessa

 Per la serie: guarda un po’ cosa ti vado a scoprire alla bell’età di 28 anni! Ho infatti appreso solo in questi mesi che quella che pensavo essere pressione bassa era invece agorafobia. E che quelli che definivo cali di zuccheri erano invece attacchi di panico.
A compensare queste sconcertanti rivelazioni, ho anche appreso che quella che definivo ansia in realtà era felicità. E quella che credevo serenità, era noia.
Comunque, al di là della confusione che ho a livello emozionale, sempre che io possegga un livello emozionale, avendo scoperto di soffrire di attacchi di panico, ho mio malgrado cercato dei rimedi per superarli, in quanto sono povera e i poveri se la devono, come sempre, sbrigare da soli. Soprattutto se vivono in posti in cui la psicologia ha la stessa rilevanza sociale dell’alchimia, per cui gli psicologi vengono visti come strani maghetti che fanno le cose con la mente. E se tu, povera, vuoi usufruire di uno psicologo del servizio pubblico, devi comunque passare da altri 6 o 7 medici prima, tanto per essere sicuri di conoscere tutti il mostro che cerca un sostegno proprio da quello lì che fa le cose con la mente e che non è invece un uomo di scienza come loro. E poi ovviamente diffondere il tuo identikit. Quindi, come sono solita fare, mi sono arrangiata e rimboccata le maniche per fare a modo mio.
Devo dire che in realtà gli attacchi di panico non li ho per niente vinti. Tuttavia sono diventata invincibile nell’evitare le situazioni che li possono causare, il che per una povera psicopatica è già un ottimo traguardo.  E questo per me non è tanto un limite a quello che vorrei fare, quanto un problema organizzativo.
Allora, essendo che non posso evitare tutti i luoghi pubblici, anche se per me sarebbe un sogno, ho creato una personale classifica dei posti ok, quelli ok da ubriaca, quelli ok se accompagnata, quelli ok ma fingendomi morta e quelli assolutamente no mio dio ti prego.
Non so bene in base a cosa un posto finisca in una categoria piuttosto che in un’altra, però mi sono fatta coraggio e, per capirlo, ho iniziato a frequentare tutti i posti possibili e immaginabili che potrei frequentare in tutta la vita, per poter empiricamente e a posteriori inserire ogni luogo in una tipologia precisa e sapere, di conseguenza, come comportarmi. Da quanto analizzato, e vi assicuro, è stato un lavoro davvero lungo e faticoso, ho appreso che il posto peggiore per me rimane la posta. Lì, in una frequentazione di due giorni consecutivi, in cui mi sono inventata commissioni e raccomandate che in realtà non esistevano, ho collezionato ben due collassi. Uno senza nemmeno riuscire a raggiungere l’uscita. Con il conseguente allarme da parte di tutti i presenti che a fatica ho convinto a non chiamare un’ambulanza. Ho detto la solita cosa della pressione bassa, ed è sembrato andare bene.
Quindi in posta non ci posso assolutamente andare. Tuttavia è facile delegare qualcuno, quindi non è un grosso problema. Banca vado bene accompagnata. Mezzi pubblici niet.  Quelli mai, ma tanto c’ho la macchina. La macchina ok, anche in coda. Concerti sì, se accompagnata e ubriaca. Cene con amici e parenti sì, ma fingendomi morta. Veterinario no. Ospedale assolutamente no. Soprattutto durante operazioni chirurgiche. Ho infatti deciso per testare la mia resistenza durante un ipotetico intervento, di farmi asportare chirurgicamente un neo sulla schiena. Benissimo, sono collassata anche se ero sdraiata e avevo la mascherina dell’ossigeno. E non è per impressione del sangue, dei tagli, delle cose. Chi mi conosce sa che invece apprezzo molto il genere. Quindi se dovessi aver bisogno di andare in ospedale per qualche motivo non potrò fare altro che lasciarmi morire a casa. Vabbè, per ora sono giovane e forte. Spero di trovare una valida soluzione entro la mezz’età, che è lì che cominciano i problemi.
Negozi affollati no. Altrimenti vado bene anche da sola. Supermercati vado bene accompagnata, ma solo se ci sono già stata in precedenza. Mostre, musei, et similia sono una sofferenza, ma devo per forza frequentarli, non come gli ospedali che se mai mi lascio morire. Lì resisto solo se faccio un giro di perlustrazione iniziale che mi consente di individuare le vie d’uscita. Sagre di paese, solo se ubriaca tanto da potermi fingere morta.
Analizzando quindi le categorie iniziali, si può notare che la maggior parte dei luoghi posso affrontarli da ubriaca o accompagnata. Diciamo che quindi la mia personale cura contro gli attacchi di panico consiste nell’alcol e nell’avere qualcuno con cui instaurare un rapporto di dipendenza e morbosità tale da non potersi quasi mai separare, qualcuno abbastanza paziente da accompagnarti in tutti i posti appartenenti alla relativa categoria. Fortunatamente a 16 anni mi sono portata avanti con il lavoro, iniziando a bere le cose peggiori del mondo, che mi hanno spappolato lo stomaco rendendomi praticamente intollerante all’alcol (questo ovviamente è un bene, perché basta pochissimo per sbronzarmi e stare male ^^), e soprattutto conoscendo il ragazzo che sarebbe diventato l’uomo che ho sposato. Quindi non sono arrivata a 28 anni del tutto sprovveduta, ma avendo già alcol e rapporto morboso come sicuro salvagente della mia vita. E infatti, checché ne dicano, sono cose che mi sono tornate utili.
Per quanto riguarda l’ansia, anche quella ho imparato a combatterla empiricamente, accendendo la tivvù. NON INTERNET, perché la sociopatia la accuso anche a livello virtuale e se accendo il computer vengo inspiegabilmente sempre ingoiata da fb che mi provoca attacchi di panico, proprio come se fossi in una piazza gremita.
E sempre in tema di ansia, in questo periodo ho fatto un’altra eccezionale scoperta, come accennavo all’inizio. E’ stata proprio un’illuminazione che mi ha colto di sorpresa un mattino appena sveglia: spalanco gli occhi con la tachicardia e dico, no cazzo mi sveglio già con l’ansia… Poi mi fermo a pensare e capisco che non è ansia. E’ tipo, non so bene come dire, forse, bo, emozione. Cioè emozione è generico, perché le emozioni possono essere infinite…ma quella era proprio emozione di quando uno dice sono emozionato. Cioè qualcosa di felice. Di gioioso. Cazzo. Infatti sto passando uno dei periodi più belli della mia vita e quindi ha più senso che mi svegli felice piuttosto che ansiosa.
Purtroppo faccio ancora tantissima fatica a distinguere l’ansia dalla felicità, non so come faccia la gente normale a capirlo in automatico. Comunque, devo dire che questo mi ha portato a riconsiderare una serie di aspetti della mia vita e del mio spirito. In primis ho dovuto ammettere che, contro ogni aspettativa, io in realtà non sono una persona depressa e con un’innata tendenza al suicidio e al disprezzo della vita, bensì sono una persona FELICE, molto felice. Pensavo ansiosa. E invece no. FELICE. Cazzo. E pensare che ho sempre fatto di tutto per negarlo. Cioè la felicità fa un po’ anche povertà mentale. Almeno credevo così.
Comunque non sono proprio certa dei risultati di questa nuova impostazione mentale. Devo ancora trovare un metodo empirico che mi consenta di distinguere uno stato dall’altro con assoluta certezza. Chi mi conosce un po’ si accorge facilmente di tale differenza dal colore della mia pelle, che cambia moltissimo a seconda del mio umore, dal mio grado di loquacità, dalla frequenza del turpiloquio e dagli occhi che mi cominciano a girare tantissimo quando vengo attanagliata dai miei strani e oscuri pensieri.
Tendenzialmente l’unica discriminante che sono riuscita a trovare è che quando provo degli stati emotivi negativi, come ansia e depressione, sono naturalmente attratta dal black metal, che mi mette sempre di buonissimo umore. Però non è proprio un metodo scientifico esatto, perché il black metal è curativo per tantissime altre cose, tipo il freddo dell’inverno o guidare con la nebbia. Quindi, vabbè, per capire la felicità devo ancora sperimentarla per un po’. Ma fortunatamente, sempre che non debba improvvisamente recarmi in ospedale per qualche motivo, il che appunto significherebbe dovermi lasciare morire, la mia vita dovrebbe essere ancora abbastanza lunga e probabilmente anche felice da consentirmi di trovare un metodo scientifico anche per queste nuove ed impenetrabili categorizzazioni. O se no basta ascoltare un po’ di black metal ogni giorno, che funziona un po’ come la mela che tiene lontano il medico, ma con gli psicologi e i mali dell’anima. Che sia felice o disperata, quello non fa mai male e un sorriso me lo ridà sempre.