lunedì 18 marzo 2013

Vecchigiovani vs giovanivecchi: le diverse facce della crisi



Tra un paio di mesi avrò 30 anni. Quando nel 1988 mia madre compiva 30 anni, aveva una figlia di 5 anni in grado di scrivere e formulare pensieri quali “questo evento ha lasciato una macchia indelebile sulla mia anima”. Io a 30 anni non solo non ho una figlia, ma nemmeno sono più in grado di formulare pensieri così profondi. A dimostrazione di questo sta il fatto che per scrivere queste 4 righe di merda, volgari e di banalità estrema, ci ho messo circa un quarto d'ora, mentre a 5 anni per scrivere quella frase ci misi meno di un minuto.
Fatto sta che compio 30 anni. 10 anni fa andava molto di moda parlare della crisi dei 30 anni. I trentenni dell'epoca venivano ritratti in ignobili film di Muccino & Co, con protagonisti attori del calibro di Accorsi & Co, che trattavano il quanto mai spinoso e controverso tema dei nuovi adulti che poverini volevano continuare ad avere 15 anni per sempre, ma non potevano.
Il dramma esistenziale da cui erano afflitti si può riassumere in due macro questioni, da cui poi possono snocciolarsi singole e svariate modalità di disperazione: cominciare a lavorare e sposarsi con chi hai/ti ha ingravidato. Insomma, smettere di farsi le canne, di ubriacarsi in discoteca, di strusciarsi con gli sconosciuti, di vomitare fuori dai locali, di fare le autogestioni a scuola. Ovviamente in pellicole di tale profondità sociologica, il passaggio da adolescenti ad adulti (che poi solo in quelle determinate condizioni storiche si verificava alla bella età di 30 anni) significava anche passaggio dalla vita spericolata all’imborghesimento.
E quindi insomma, un po' come gli amici al bar di Gino Paoli, questi giovani 30enni pieni di sogni e belle speranze, lentamente si trovavano costretti a cedere al richiamo delle responsabilità sociali e con desolazione, uno a uno, dopo aver fatto l'ultima cazzata della vita, deponevano la gioventù in un cassetto con la promessa di ritrovarla una volta all'anno per fare la rimpatriata estiva con gli amici/amiche e partire liberi da lavoro, coniugi, figli e affini per una Vacanza, un Viaggio, di quelli veri, di quelli che si usano nella contemporaneità, nei classici luoghi meta dell’italiano medio che sente le ali tarpate dalla routine e percepisce quella strana necessità di sentirsi libero e di sprigionare la propria energia cosmica….insomma quei luoghi come Cuba o Las Vegas o il Brasile…..lì sì che c’è aria di libertà….non la libertà inutile di pensare o di esprimersi, intendo la libertà di toccare culi e scopare moltissimo e ubriacarsi e drogarsi….insomma la libertà vera, quella che tocchi con mano, mica quella che pensi e basta. Per pensarla e basta non serve volare di certo fino a Cuba, eh.  Insomma, tematica quanto mai atavica, chiaramente esplicitata in epoca ben anteriore a questa generazione dei trentenni anno 00, dal detto: “Ad agosto moglie mia non ti conosco”.
Ecco, è abbastanza sconcertante pensare che 10 anni fa ci si potesse ancora occupare di questo tipo di problematiche. E' evidente che il declino era già segnato. Alla fine questi 30enni che non avevano voglia di diventare grandi, lo sono diventati per forza e per questi 10 anni, tra una vacanza e l'altra, hanno ridisegnato la società attuale. E noi ora, anziché la crisi dei 30 anni, ci ritroviamo la crisi punto.
Non so se ci sia stato un disegno dietro tutto, fatto sta che oggi la mia generazione ha da affrontare una crisi dei 30 anni del tutto opposta. In questi 10 anni le cose sono cambiate moltissimo.
Le due macro questioni esistenziali che deturpavano le anime dei trentenni anno 00, si sono auto risolte per la generazione anno 10, in quanto nessuno ha più lavoro e di conseguenza tutti se ne guardano bene dallo sposarsi e fare figli.
Proprio come era nei sogni di Accorsi e la sua banda, molti degli attuali 30enni continua a fare la vita di un adolescente che vive a casa con la mamma e che cerca il lavoro per l'estate cerchiando con il pennarello gli annunci sul giornale. La maggior parte per sembrare di non buttare via gli anni migliori continua a studiare. Studia tantissimo. Laura triennale, biennio specialistico, master, ecc ecc. E in questa adolescenza senza fine, continua ad avere notti prima degli esami anche a 33 anni, fa le manifestazioni, occupa le aule. Insomma fa lo studente. Ma senza un disegno o un progetto....solo per impiegare il tempo.
Poi va bè, a me viene difficile fare dei discorsi universalizzanti , perché non mi ritrovo per niente nella mia generazione e non conosco abbastanza persone da fare discorsi “statistici”….ma posso con quasi totale certezza affermare che la crisi punto è una menata ben più grande delle menate della crisi dei 30 anni.
I trentenni come me si sono stufati prima di quelli di 10 anni fa di partecipare alle feste e uscire strisciando sui gomiti. Cioè l'idea è sempre quella per cui se lo fai per trasgredire ad una routine è divertente, ma se lo fai tutti giorni potrebbe essere un problema che richiede l'intervento di qualche istituto preposto alla cura delle fasce deboli.
Quindi vivere da 15enni non ci soddisfa e molti di noi vorrebbero invece quella bella stabilità delle persone più mature, che hanno un lavoro, una casa, una macchina, dei figli. Ecco, se tutto ciò è imposto socialmente si è pronti a vomitarci sopra dopo aver baciato una diciottenne appena conosciuta, ma se ti viene imposto il contrario, ecco che siamo tutti pronti a guidare a 50 all’ora delle macchine familiari per recarci al lavoro di tutti i giorni, parcheggiando sempre nello stesso posto. Rincasando in un bel condominio, cucinandoci la cena, guardando la tivvù, facendo le lavatrici, leggendo prima di addormentarsi, restando fedeli al proprio partner, ecc ecc.
Insomma abbiamo la crisi di Accorsi, ma al contrario. La Crisi di Accorsi Inversa. Ecco.
Aneliamo alla mezza età, quando potremo riposarci in pantofole, guardando Gerry Scotti, senza l’ansia di gettare gli anni migliori davanti alla tivvù perché non si ha nulla di meglio da fare. Aneliamo al posto fisso. A tempo INDETERMINATO. Vogliamo che le cose non cambino più, che si stabilizzino. Vogliamo percepire lo stesso stipendio tutti i mesi, con la certezza di riceverlo. Vogliamo una casa da sentire nostra, e non un orrendo monolocale scalcinato pieno di immondizia come una casa studente, o peggio ancora vivere nella cameretta di quando eravamo piccoli, con ancora i peluche sulle mensole e i poster dei Nirvana attaccati al muro con lo scotch. Vogliamo sposarci con una persona e farci dei figli, prima di essere costretti a partorire a 60 anni, che Carmen Russo lo vediamo tutti come è e ce la fa, ma io personalmente davvero non me la sento. Vogliamo avere un prestito dalla banca da saldare noi in prima persona, senza che lo debbano fare i genitori al posto nostro, come quando facevi le medie che andavi con il nonno alla posta e ti apriva il libretto garantendo lui per te e mettendoci lui i soldi.
Insomma, vogliamo la mezza età.
Quando avevo 20 anni mi ero ripromessa che non avrei mai avuto la crisi dei 30 anni. L'ho sempre trovata davvero troppo infantile per una che a 5 anni aveva macchie indelebili sull'anima. Il destino ha voluto comunque contrassegnare questo periodo della mia vita con la parola “crisi”, anche se con una valenza completamente diversa. Una crisi planetaria, tra l’altro, non solo personale e generazionale.
Gli ex trentenni ora sono alle prese con la crisi di mezza età e relativo trauma, ovvero rimpianto per  tutto quello che hanno perso ora che non sono più giovani adulti, seguendo quindi lo stesso schema della crisi dei trent’anni, dovuta al senso di perdita di qualcosa di speciale legato ai loro 20 anni. In un certo senso la loro crisi è sempre dovuta dalla paura di perdere uno status di benessere nel quale vivevano, per rendersi conto il decennio successivo che anche negli anni appena trascorsi nei rimpianti di ciò che era, c’era qualcosa di positivo che si poteva perdere nei 10 anni dopo….e così via, vivendo continuamente nel passato e rinnegando la propria età naturale. E avanti, ora ci ritroviamo le milf coi loro toy boy, gli uomini canuti con le decapottabili sportive, e le solite vacanze a scopo sessuale (che quelle vanno bene ad ogni età, a patto di rimpiangere sempre la quantità di sesso che si faceva il decennio prima). E anche proseguendo negli anni, ci sono persone che non vogliono andare in pensione, ma lavorare per sempre. Che prendono il Viagra a 70 anni e muoiono di infarto. Anche loro, in qualche modo, anche se di generazioni diverse, vivono una crisi molto simile a quella dei trentenni anno 00.
Ora, invece, applicando la teoria della Crisi di Accorsi Inversa, la mia generazione vive la crisi del futuro, anziché quella del passato. Non ha la paura di essere troppo vecchia, ma di rimanere un’eterna bambocciona. Non ha paura di perdere quello che ha avuto, ma di non riuscire ad avere mai nulla. Abbiamo paura di ciò che ne sarà di noi, ecco, volendo smettere di essere ciò che siamo stati finora.
E non è difficile immaginare che la nostra crisi di mezz’età sarà contraddistinta da sogni perversi riguardo l’avere un giorno una pensione tutta nostra, più che da sogni erotici con toy boys efebici e scultorei.
Staremo a vedere. Per ora non posso che dire che sì, la crisi del vicino mi sembra più verde, ma anche penosamente ridicola. E quindi, piuttosto che l’Ultimo bacio, ben venga quest’ultimo schiaffo che la crisi punto ha dato alla mia generazione, e che per quanto ci faccia soffrire, almeno ci impedisce di fare troppe figure di merda.

sabato 2 marzo 2013

Aufklärung ad Alessandria

Triste ammetterlo, ma probabilmente la misantropia che mi contraddistingue non è solo merito mio e non è tutta farina del mio sacco. Non è qualcosa che ho da sempre.
Certo, fin da bambina piccolissima sono sempre stata solitaria e diffidente verso il prossimo. Non mi sono mai piaciute le situazioni di “gruppo” o di “branco”, ho sempre odiato giocare a palla prigioniera, ce l’hai o bandiera, e sono una maestra nell’inventare ogni tipo di scusa per evitare feste di compleanno, cene con i colleghi, battesimi, matrimoni, lauree, braciolate, merendini, evviva andiamo tutti insieme al fiume a fare il bagno, evviva andiamo tutti insieme in vacanza, evviva facciamo tutti insieme un campeggio, evviva sediamoci tutti insieme intorno al fuoco a raccontarci le cose…ecco…per carità, no. Tutti insieme no. Io e te e un altro al massimo ok, va bene, se proprio insistete. Ma se siamo più di 4 no guarda, facciamo un’altra volta che oggi ho avuto una giornataccia al lavoro e stasera non sono in gran forma chehomalditestamaldipanciaattacchidansia, ecc. E poi c’è Mistero, ma come faccio ad uscire, dai, anche voi….
Sì, ho sempre evitato i gruppi. I gruppi mi fanno tantissima paura. Perché lì tutti si sentono forti. Tranne me. Nei gruppi conta solo essere spigliati e divertenti. Io non sono molto spigliata. E nemmeno troppo divertente. E l’esserlo non è una di quelle cose come l’intelligenza, che puoi fare finta e magari non ti scoprono. No, o lo sei o non lo sei, e se non lo sei si vede. E più cerco di dire a me stessa di reagire, di prendere in mano la situazione e lasciarmi andare, più perdo il senso della realtà e mi estraneo completamente. Mi estraneo talmente tanto da non sentire nessuna voce e vedere nessun volto. Da non ricordare nessun avvenimento e nessun luogo in cui sono stata. L’unica soluzione è bere moltissimo. Ma non perché così mi lascio andare e ta-dà divento sciolta e simpatica, semplicemente perché così almeno sto male, vomito e mi portate a casa, per favore.
Devo dire che questo mio particolare modo di percepire il mondo non è vincolato necessariamente alle situazioni di socialità, ma è proprio peculiare del mio rapporto con la realtà.
Quando ero più giovane definivo questo mio modo di essere, una “spiccata capacità di astrazione”. Ora tendo a non volerlo definire per evitare di dare un nome clinico a qualcosa che fino a poco tempo fa era un grande pregio della mia mente.
Diciamo che a un certo punto mi sono resa conto di non essere mai esattamente nella realtà esperienziale, non solo del qui e ora, ma anche in generale. Non solo non vedo né percepisco quello che mi accade in questo momento, ma nemmeno ho completa percezione di elementi fisici che mi circondano per la maggior parte della giornata. Per esempio non saprei dire che taglio di capelli ha il mio miglior amico e nemmeno sarei in grado di affermare con certezza che il colore dei muri del palazzo in cui vivo è il beige (o grigino, o marrone, o bo, va bene, dai non lo so, inutile stare a girarci troppo intorno). Non è una questione di memoria. O di fisiognomica. E’ proprio una questione di concentrazione: io sono sempre e solo attenta a ciò che penso e null’altro. Mio malgrado vivo sempre rinchiusa nella mia mente. Che tra l’altro non è nemmeno un posto particolarmente accogliente e confortevole.
La realtà lo è molto di più. Quando mi impegno e cerco di percepirla, mi rendo conto che è molto più semplice di quello che sembra nella mia testa.
Un mio professore universitario, nonché scrittore di best sellers dell’ultimora, chiamava questa pratica “sega mentale”. E sosteneva che per essere felici bisognasse semplicemente smettere di pensare e vivere nella realtà. Nel qui ed ora. Esperire. Sentire. Toccare. Essere in contatto con il corpo e il mondo.
Io purtroppo non ci riesco. Sono la regina della masturbazione mentale. Non sono sinceramente nemmeno sicurissima di esserci nella realtà. Cioè, non sono proprio certa di essere vera. Di essere materiale. Di vivere. Né che ci sia un corpo e un mondo con cui stare in contatto. Porca troia, Cartesio mi capirebbe sicuramente. Penso che la mia vita sia tutta per intero una masturbazione mentale iniziata quando ho aperto gli occhi ed emesso il primo vagito. Certo, non so se è proprio masturbazione. Si vede che quel professore non frequentava molto la mia mente. La masturbazione è qualcosa di solitario e piacevole. La mia vita mentale non è esattamente così. Anzitutto non è piacevole. E poi, benché estraniata, è in relazione con il reale . E’ più come un rapporto sessuale con qualcuno che ti fa schifo, ecco. E’ quasi uno stupro, direi, almeno in certi momenti. Sì, la realtà mi stupra il cervello. Questa è la conclusione.
E diciamo che i Gary Ridgway e i Ted Bundy della mia mente sono le persone comuni. Loro mi seviziano, torturano, uccidono. Ogni giorno. A poco, a poco.
Ogni giorno vedo tantissime persone. Ogni giorno subisco una sevizia.
E queste sevizie, perpetuate nel tempo, hanno creato e alimentato la mia misantropia. Come una persona che molestata per anni, difficilmente trarrà mai piacere dal sesso, ecco.
La diffidenza verso il prossimo ce l’ho sempre avuta. Ma la misantropia no, è colpa vostra.
E’ la mia difesa.
Ecco, la mia misantropia è sbocciata negli anni, probabilmente dai semi della sociopatia, non so, prima fragile germoglio e poi robustissima piantaccia sempreverde e rampicante, tipo l’edera, che non la stacchi nemmeno a morire. La misantropia è come l’edera, s’attacca dove vuole.
A me si è attaccata e ormai non posso più farci niente. A volte mi impegno a sradicarla, perché penso, Ah chissà quante cose meravigliose potrebbero accadermi se aprissi il cuore al mondo, ma immediatamente l’edera si attorciglia intorno al mio collo, mi sento soffocare, stringe, stringe fortissimo, mi manca l’aria, aiuto devo uscire, un sorso d’acqua per favore, mi stendo un attimo con le gambe alzate, no, non vi preoccupate è solo un abbassamento di pressione, poi mi passa. E invece no, è il rampicante della misantropia che mi soffoca e mi fa venire gli attacchi di panico.
Però davvero io ci provo.
Nessuno che si iscriva alla facoltà di filosofia ci va da misantropo. Ci si iscrive perché si crede fortemente nell’umanità. Si crede nell’uomo, essere “superiore” perché pensante.
E’ il momento della vita in cui si è illuministi. Ottimisti. E si pensa che l’uomo abbia un dono incredibile. Il suo intelletto, la sua ragione, il libero arbitrio, la capacità di compiere scelte morali. E’ l’Aufkalrung.
La Storia dell’Uomo e la vita di un uomo seguono le stesse tappe, più o meno. E così ,dopo l’Illuminismo e il credere nel lume della ragione come fiaccola che illuminerà la storia, l’umanità, il progresso, e dopo una breve parentesi romantica di cui non vado molto fiera, ecco arrivare il mio Novecento, il mio nichilismo. Eccomi lì. Non so se ne uscirò. Non so se l’Uomo ne è uscito e ne uscirà mai.
Nichilismo e misantropia sono subentrati in maniera violenta da quando passo la maggior parte della mia vita ad Alessandria. Da quando ho un’edicola che mi porta a contatto con tutti i Ted Bundy dell’intelletto. La mia edicola è il ricettacolo del male. Davvero.
E grazie a voi, cari miei, ho perso la fiducia nella ragione. Nell’uomo. Nella morale.

Tu, quando hai baciato il giornale con la foto della Madonna distrutta durante la manifestazione degli Indignati a Roma, tu che eri disperata per come avessero conciato “la tua madonnina, o mio dio, cosa le avete fatto?” e hai posato le tue vecchie labbra a baciare la rappresentazione fotografica di una rappresentazione scultorea di una rappresentazione iconografica di una rappresentazione religiosa di una stupida idea come la madre di dio…..ecco in quel momento mi hai fatto più male di quello che i black block hanno fatto al tuo dio. Mi hai stuprato di nuovo la mente. Hai contribuito a terminare il mio  Aufklärung personale. Hai dato nuova linfa al mio rampicante misantropo. Mi hai fatto male. Male vero. Un male reale.

E tu, quando per diciottesimo, hai fatto la stessa “battuta” dicendomi “Vorrei un Piccolo e un Grande” ironizzando nella maniera più stupida possibile sul fatto che compri un quotidiano che si chiama Piccolo e un cazzo di giornale che si chiama Grandhotel e il tuo cervello ha fatto questo splendido ed esilarante collegamento, come gli altri 17 prima di te e come altri 51 dopo e come hai già fatto settimana scorsa insieme agli altri 73 e la settimana prima con i tuoi altri 58 amici comici. Ecco, anche tu hai contribuito ad uccidermi. Anche tu mi hai fatto male. Male vero. Un male reale.

E tu che hai esaltato te stessa come se fossi un genio creativo perché un giorno “ho avuto un’illuminazione – bè, sentiamo, che ci sia un barlume di Aufklärung qui ad Alessandria? – “Cioè, non ci puoi credere, una cosa incredibile, una cosa che, cioè, mi ha detto: allora vedi il tuo cervello funziona ancora, è ancora brillante e geniale come da ragazza, sei ancora al passo con i tempi e trendy… Sono un vero e proprio genio: ho preso un pennarello rosso e uno nero e sono andata alla mia insegna MODACAPELLI e davanti con questi due strumenti ho CREATO: ho scritto I (pennarello nero) <3 (pennarello rosso) e così ora il mio negozio si chiama i <3 modacapelli (scritto in pennarello sull’insegna?! O__O). Cioè sono un genio vero?”
Ecco tu genio di sto cazzo hai contribuito a spegnere il lume della ragione dell’umanità. Anche tu mi hai fatto male. Male vero. Un male reale.

E tu, Stampa Gaszeta. Anche tu mi hai fatto male. Male vero. Un male reale.

E tu, Buongiorno per tutto il giorno. Anche tu mi hai fatto male. Male vero. Un male reale.

E tu, L’importante è la salute. Anche tu mi hai fatto male. Male vero. Un male reale.

E tu, Metto un euro nel portafortuna. Anche tu mi hai fatto male. Male vero. Un male reale.

E tu, Prendo i giornali di mio figlio – e quali sono? – eh non lo so se non lo sa lei, ma insomma dico io! Anche tu mi hai fatto male. Male vero. Un male reale.

E tu, Leggo solo telesette perché sono abituata. Anche tu mi hai fatto male. Male vero. Un male reale.

E tu, No, non ho soldi piccolo Paolo per prenderti i libri da leggere, ti dò un euro per le figurine. Ah aspetta che gioco i 49 euro di resto alle macchinette. Anche tu mi hai fatto male. Male vero. Un male reale.

E tu, Prendo la cassetta di sanfrancesco – non è cassetta è dvd – ma come non è cassetta?! – eh ora ci sono i dvd – ma è lo stesso? – no – ma questo è troppo sottile per essere una cassetta – infatti è un dvd – vabbè lo prendo anche se non posso vedere i dividdì perché cmq è sanfrancesco - Anche tu mi hai fatto male. Male vero. Un male reale.

E ne avrei a centinaia di demoni come questi da evocare. Tutti i demoni della quotidianità.
Tutti protagonisti di piccoli eventi volti a scalfire man mano quel po’ di Aufklärung personale che conservo nel cuore. Tutto questo male reale è la realtà che mi rimane. E’ la realtà della normalità, delle persone. Ecco perché fuggo. Ecco perché sono meglio le seghe mentali. Ecco perché “ho una spiccata capacità d’astrazione” volta ormai in patologia.
Mi spiace cari miei, non so da voi, ma qui di  Aufklärung non se ne vede….
Ho solo centinaia di aguzzini pronti a torturarmi. E io sono qui ad aspettare che la mia misantropia si trasformi un giorno in sindrome di Stoccolma, sperando così di soffrire un po’ di meno.